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Per una volta abbandoniamo la politica in favore della letteratura. Ma non poi cosi' tanto perche' il racconto di Vittorio Barsotti "Si va in America!" offre un bellissimo spaccato della societa' e delle problematiche fra XIX e XX secolo.
Il racconto e' stato recentemente premiato - poiche' terzo classificato al concorso "Inedito" - dal Salotto letterario "Il libro delle otto" di Rossana Giorgi Consorti e di Marinora Federighi.
Buona lettura.

Si va in America!

Di Vittorio Barsotti

Siamo tutti figli dello stesso seno Ognuno con un ramo di follia, chi più chi meno!

(mia nonna Càtera)

Salvatore era un ragazzo forte ed intelligente: avevano insistito a chiamarlo così, come il nonno paterno, dopo che altri due precedenti neonati, con lo stesso nome, erano morti in fasce; con le quattro sorelle ed i due fratelli erano, tutto sommato, una famiglia poco numerosa per quei tempi.
La casa era modesta: a due piani con la camera sopra la stalla: di fianco al fienile mandorlato; al piano terra la grande cucina era questa la vera “casa”. Faceva parte originariamente dei possedimenti dei Mansi, appena fuori le mura della città, verso est sulla vecchia romea in direzione Viareggio. Tutt’intorno circa 10 prodi di terra garantivano il parco sostentamento della famiglia di Giuseppe Pardini. Un uomo, costui, cresciuto secondo tradizione, semianalfabeta ma buon cristiano, lavorava in campagna ed accudiva alle quattro bestie nella stalla che servivano per il lavoro e per il latte e, più di rado, per la carne. Tutti, moglie e figli compresi, contribuivano all’economia famigliare, seguendo l’incedere delle stagioni. Le sorelle, tra un bucato e l’altro rimorchiato nelle tinozze appoggiate in equilibrio sulla testa fino ai lavatoi comuni, accudivano alla casa ed ai più piccoli, cucivano, aiutavano in campagna o predisponevano le verdure da portare al mercato quand’era stagione,….
spesso cantavano! Una vita serena, anche se intrisa di stenti e di lavoro continuo….

Soldi non se ne vedevano. Era il babbo che poteva vantare di dire come erano fatti perché capitava che li faceva girare andando a lavorare come stagionale alla cava sul Serchio, appena al di là dell’argine grande, oppure come operaio saltuario nella manutenzione delle strade bianche e dei poggi del fiume. Però appena incassati, tolte le spese indispensabili per gli attrezzi, le sementi ed il necessario per i campi, sparivano fino al tempo della luminara. Allora, soltanto, il babbo li prendeva, se li ficcava in tasca e andava al mercato in occasione della festa di S. Croce, al saliscendi sul Giannotti per scambiare una bestia, oppure acquistare un vitello, insieme a qualche gallina, da crescere e rivendere.

Salvatore, più degli altri fratelli, lo accompagnava volentieri perché sapeva che qualcosa cadeva anche per lui: magari un paio di zoccoli nuovi, insieme a qualche leccornia. Ma soprattutto era la magia della Fiera che lo affascinava: la confusione della gente, i mercanti vocianti, i saltimbanchi e poi le merci colorate, le vettovaglie, gli arnesi, le gabbie con gli animali insieme a tutte le cose che, in quei giorni riempivano le strade e le piazze di Lucca.

Fu in una di queste fiere che rimase colpito da un cantastorie, il quale con l’aiuto di un cartellone narrava in rima, accentuando in modo un po’ sconclusionato, le gesta eroiche di antichi cavalieri e di travolgenti amori. . .
Così Salvatore cresceva: insieme alla scuola primaria inferiore: tre anni per leggere e far di conto, il lavoro e poi ancora lavoro: a otto anni, come tutti gli altri fanciulli, o si imparava un mestiere o si lavorava nei campi: questo era il suo destino.

Lui volle rimanere accanto al babbo. La campagna gli piaceva, anche se era un lavoro da fame.
La mattina presto, ancora con le stelle in cielo, in primavera ed estate al mercato fino alle stelle di sera, quando accudiva le bestie. Più grandicello andava, quando lo chiamavano, a lavorare ad “opre” per conto terzi. Soldi, in quell’occasioni, nemmeno l’ombra: ma almeno mangiava senza pesare in famiglia, ritornandovi con una sacchettina di grano oppure con un po’ di castagne.

Era davvero un brutto momento: con l’unità d’Italia per la gente come la sua poco era cambiato: lavoro scarso e fame tanta….

Aveva sedici anni, quando conobbe un cugino che gli parlò dell’America. I Pardini erano stati tra i primi a Lucca ad emigrare. In famiglia le cose andavano sempre peggio: in casa le bocche da sfamare erano aumentate: la sorella Clementina aveva portato a stare con loro anche il marito oltre al suo piccolo di un anno mentre il suo pancione annunciava nuovi futuri patimenti e fame per tutti.

Così, una domenica, dopo la messa, a tavola per il pranzo (ormai lo consideravano un uomo e poteva mangiare con i grandi) Salvatore annuncio la sua idea dell’America e chiese la benedizione di suo padre per partire. La mamma che non diceva mai niente continuò anche quella volta a tacere ma Salvatore si accorse che piangeva in silenzio mentre andava e veniva dai fornelli a carbone…
Suo padre l’accompagnò in parrocchia e lo fece parlare con il parroco che conosceva ed amava Salvatore: lo stimava un ragazzo sempre pronto a servirlo, attento e soprattutto intelligente e sveglio: con lui spesso si dilettava a far da insegnante stimolandolo come poteva alla lettura….
Lo prese per mano e mentre gli dava i migliori consigli si accorse che Salvatore si era fermato di fianco allo scaffale dei libri come colpito da un vecchio volume: lo prese e si accorse che era “La Gerusalemme liberata” del Tasso. Lo tolse dallo scaffale e lo porse a Salvatore: "Prendilo con te, portalo in America, Ti servirà per passare il tempo sulla nave…buon viaggio!"

La traversata, in compagnia del Tasso fu meno lunga e noiosa di quanto non fosse in realtà e quei versi, letti e riletti migliaia di volte gli servirono a dimenticare gli stenti di quel lungo viaggio di quarta classe.

Poi finalmente l’America e la sua magia: quel Paese era proprio grande, anzi immenso… Ma non si perse d’animo, anzi volle attraversarlo fino all’ovest, verso la frontiera, là dove c’era terra sconfinata, acqua in abbondanza e possibilità di fare fortuna.

Fece tutti lavori possibili, poi, laggiù, in California, divenne un colono…Cominciò a lavorare per altri, poi si mise per conto suo, con poca terra e bestiame, costruì una piccola capanna di legno e cominciò ad ospitare tutti quelli che incappavano in lui e, con chi restava di loro, dopo un po’ eresse un vero e proprio ranch con terra, bestiame e, soprattutto, dollari! Dollari che divideva con la famiglia in Italia: era una vera e propria manna per i Pardini rimasti a Lucca…

Aveva imparato l’inglese, sul campo e leggendo anche i giornali quando gli capitavano; tuttavia era rimasto affezionato al suo libricino del Tasso, con “la Gerusalemme liberata” donatogli dal parroco: anzi aveva dovuto farlo rilegare, tanto era sofferto per l’uso.

E’ vero si era fatto anche una piccola biblioteca, con anche un’edizione di lusso della Bibbia, ma quel libro curato dal Guastalla, edizione fiorentina del 1837, rappresentava la sua vera passione.
Lo conosceva a memoria e ormai declamava il poema meglio degli affabulatori della Fiera di S. Croce che tanto lo avevano affascinato.

Viveva solo, ma aveva già tanti amici in America: molti suoi lavoranti, messicani ed indiani, lo amavano perché avevano imparato a contare su di lui, in ogni momento: era una sorta di stregone bianco: conosceva, perché così gli aveva insegnato suo padre, bene le piante selvatiche: il sambuco per lenire le scottature o le emorroidi, la centaura per detergere le ferite in emergenza, il rizoma del tarassaco per sfiammare e alleviare dal mal di denti ed altre ancora. Inoltre sgravando sempre con passione e perizia il bestiame, aveva imparato a non abbandonare a se stesse, perché isolate in quelle distese verdi nemmeno le puerpere di qualsiasi razza fossero, al momento di quel loro solitario parto.

Pressoché quarantenne a Salvatore, ormai realizzato economicamente, mancava però qualcosa o meglio qualcuno: una moglie. Ma che moglie? Certamente la voleva italiana.
Ma non poteva, però, tornare in Italia al momento: c’era ancora tanto da fare in America.
Di solito quando scriveva in Italia inviava le sue lettere alla cugina Elvira: un po’ più vecchia di lui ma sveglia e, soprattutto capace di leggere e di scrivere bene: infatti aveva frequentato la scuola fino alla quarta ed anche se suo padre Giuseppe se la cavava con la lettura, stava, però diventando vecchio e faticava con la vista. Elvira, allora, si era resa subito disponibile a far da lettrice della posta di Salvatore alla famiglia. Provvedeva lei a rispondergli e, qualche volta prendeva da sola l’iniziativa di scrivergli per prima per raccontargli un po’ delle cronache familiari lucchesi: buone e cattive.
Perciò parve naturale a Salvatore affidarsi ad Elvira per la ricerca di una moglie adatta a lui….

Elvira era molto religiosa ed andava spesso in chiesa, talvolta si soffermava con il parroco proprio per parlare di Salvatore; fu così che gli racconto l’esigenza del cugino di ammogliarsi.
Allora era abbastanza in uso che mediatori di matrimoni fossero proprio i preti. Don Alvaro, apprezzando la richiesta, le disse che al momento non aveva partiti interessanti da proporre, ma che ci avrebbe pensato e ne avrebbe parlato anche con altri suoi amici parroci durante una delle tante riunioni diocesane che si tenevano alla curia di Lucca.

Caterina aveva sedici anni, era una ragazza sana e piacevole: abbastanza alta per quei tempi e dimostrava di più della sua età, nonostante continuassero, in casa, specie sua madre, a trattarla da bimba cresciuta. Non sapeva né leggere né scrivere: le preghiere, dette in “latinorum” le conosceva a memoria, però sapeva, a suo modo, contare ed era difficile imbrogliarla.
Preferiva ai lavori domestici, quelli in campagna. La sua famiglia, poverissima abitava in una casupola di corte, vicino all’Ozzeri. Di terra buona i suoi ne disponevano ben poca; tra quel poco di bosco là sui primi pendii di Guamo, vicino alla “Parole d’oro” che più che sterpaglie non dava e tra le terre umide dell’Ozzeri, quasi sempre allagate, restavano esigue prodi per avere qualche buon raccolto.
E poi la sua famiglia era così numerosa che quasi si scordavano i compleanni di tutti i fratelli e le sorelle.

Da poco che sua sorella Rita, di poco più di un anno più grande di lei, era promessa ad un giovane pastore che, in transumanza, portava lì ogni anno le sue pecore, la mamma aveva cominciato a dire a Caterina che era giunto il momento perché anche lei si maritasse. A Sorbano, un borgo vicino, c’era un maniscalco il cui figlio, Agostino detto ‘Gosto l’aveva notata alla messa e l’avrebbe voluta in moglie. Qualche avvisaglia c’era già stata: il maniscalco si era fatto avanti per strada con la mamma che poi l’aveva riferito a Caterina, che subito aveva reagito:. “Non mi garba, mamma, è brutto e con gli occhi storti” .
“Garbare è un lusso che non fa per noi… “ le aveva risposto sua madre, ribadendo: “A primavera dopo il matrimonio di Rita, se ne riparla!” chiudendo così qualsiasi dialogo in merito.

Caterina, mentre raccoglieva la legna per farne delle fascine, che, come un uomo, si portava in spalla fino al carro di raccolta, giurò a se stessa, mentre gli steccoli le si conficcavano nelle spalle senza che ne sentisse il dolore tanto era furente, che piuttosto che sposare ‘Gosto sarebbe scappata di casa.
Lo disse anche ad una sua amica, proprio dopo la messa e quella gli consiglio’ di parlarne con il curato perché le avrebbe dato certamente buoni consigli. Ci parlò con il curato che le disse che forse una possibilità c’era: quella di andare a sposarsi in America!

Fu così che Elvira conobbe Caterina. Si piacquero subito e iniziarono a frequentarsi. Certo Caterina doveva rifarsi un po’: quei vestiti che portava non le si addicevano affatto. Ma si poteva rimediare. Nel frattempo Salvatore fu informato che forse la moglie l’avrebbe avuta se le fosse piaciuta questa Caterina. Dopo qualche lettera Salvatore dette preciso mandato al suo parroco di fare l’affare. Allo stesso tempo riscrisse ad Elvira e dettò le sue condizioni: avrebbe provveduto lui a tutto: dalle pratiche di richiamo parentela alle spese, soprattutto per il viaggio per lei e Caterina, ma ad una condizione: ci sarebbero stati quattro biglietti due in andata e due in ritorno, in modo che se Caterina non gli fosse piaciuta sarebbero tornate in Italia così come erano venute. Elvira, poi, non avrebbe dovuto dire poco o niente di lui e far finta di non conoscerlo se se lo fosse visto capitare lungo l’interminabile viaggio che avrebbero dovuto fare per raggiungere la California. Queste le condizioni.

Caterina era eccitata all’idea della partenza, ma anche timorosa.
La signora Dora, dove la mamma era andata a balia, le fece avere un bel paio di stivaletti quasi nuovi ed anche le sorelle più grandi fecero a gara a darle qualcosa di più decente per vestirsi per il viaggio.

Partirono da Genova alla volta degli Stati Uniti insieme ad una moltitudine di gente e l’ultima loro tappa fu Ellis Island, un’isoletta della baia di New York, gemella di quella sulla quale poggia la Statua della Libertà, che poi per alcuni decenni a cavallo dei secoli XIX e XX fu la soglia del Paese del Burro e del Sogno Americano.
Gli emigranti arrivavano ad Ellis Island e lì venivano sottoposti a controllo: tutto bene per le due giovani donne lucchesi: finalmente a New York, ora potevano andare incontro a Salvatore.

A Boston presero il treno “coast to coast” della Union Pacific ad est (che si sarebbe trasformata Central Pacific ad ovest). Elvira controllò i biglietti, trovò lo scompartimento e, aiutata da Caterina, fece entrare i bagagli all’interno. Quando alzò gli occhi lo vide: Salvatore stava seduto proprio in un posto davanti ai loro. Come un perfetto gentiluomo si offrì per aiutarle, poi riprese il suo posto, con nonchalance, sfogliando un giornale…

Caterina si accomodò e cominciò a guardarsi intorno tra il curioso e l’incantato: fuori dal finestrino una turba di gente continuava a muoversi tra e lungo i binari, mentre alcuni treni partivano ed altri arrivavano. Una confusione ordinata, colorata e vociante, ma senza eccessi: ciascuno sembrava sapere dove andava e lei li guardava ammirata da tanta sicurezza e decisione.

Poi il viaggio incominciò. Appena Elvira le rivolse la parola, il signore davanti disse loro semplicemente.”anche voi italiane?” e con garbo si presentò fornendo false generalità.
Caterina, dapprima diffidente, prese ad ascoltarlo con interesse, pur senza capire tutto quello che diceva.

Salvatore cominciò a parlare dell’America e di come fosse grande quel Paese. Anche lui andava ad Ovest per l’appunto in California. Descrisse la California e parlò del territorio del Nord, la terra della mitica "Vena d'oro", la più famosa delle Corse all'oro. Narrò di come proprio due italiani, Nosanno Jeff e Joe, nel 1876, sulle montagne ad occidente della Death Valley, avessero scoperto la miniera più ricca presso la città mineraria di Skidoo in California Ed ancora descrisse loro, mentre l’attraversano, l’interminabile grande prateria dove il mitico Buffalo Bill cacciava i bufali e combatteva gli indiani durante la costruzione della ferrovia che stavano in quel momento percorrendo.

Caterina ascoltava questo signore distinto, certo non più giovane “ma – pensava - proprio un bell’uomo e poi così gentile e cortese…” Ed ancora, sentendosi un po’ in colpa, pensava a Salvatore che la stava aspettando a Sacramento ripetendosi, come faceva ormai da qualche mese: “chissà come sarà? Chissa se mi piacerà?…Se fosse come questo signore, compagno di viaggio per caso, proprio non mi dispiacerebbe, anzi!….”.

E in compagnia di questi pensieri, spesso finiva per non seguire a pieno la conversazione. E’ vero lei non parlava quasi mai: solo accenni, qualche sorriso e timidi monosillabi. Del resto, da quando era partita si comportava così: un po’ perché era analfabeta e non voleva che lo si sapesse ed un po’ perché effettivamente era ritrosa alle conversazioni, quindi certamente fare la timida l’aiutava parecchio.

Salvatore parlava ed ascoltava quel poco che Caterina diceva guardandola con attenzione, quasi ricercandone i più arcani misteri. “La ragazza non è male! Anzi mi sembra proprio carina!” Pensava. Di lei, oltre allo sguardo che gli appariva simpaticamente vispo, le piaceva anche il volto e poi la carnagione così bianca eppure le mani, piccole ma forti.

Elvira, che aveva già capito come le cose si svolgessero al meglio, stava al gioco e faceva la vaga ogni volta che Salvatore chiedeva le ragioni di questo loro viaggio: “Hai voluto fare l’estraneo, allora adesso te lo faccio fare davvero!” Pensava soddisfatta la cugina.
E così, tra una chiacchiera e l’altra, giunsero tutti e tre in California, Alla Stazione Elvira e Caterina si fecero nuovamente aiutare nello scendere dal treno.
Salvatore le saluto’ garbatamente con un baciamano ed alzando la tesa del cappello, poi , fatto il giro del treno, si ripresentò a loro e candidamente disse: “Bene arrivate, spero che il viaggio sia stato buono, io sono Salvatore!”
Caterina lo guardò un po’ imbronciata, da gatta selvatica come in parte era, ma le passò subito per voltarsi verso Elvira in una felice risata.

Di loro non si sa molto di più. Lo stesso giorno del loro arrivo a Sacramento Caterina appose la sua croce vicino alla firma di Salvatore e si ritrovò sposata civilmente con lui ma, alla sera, al momento di entrare in camera, Elvira si frappose tra loro e ordinò a Salvatore di dormire, anche quella notte da solo: prima bisognava sposarsi in Chiesa!
Il giorno dopo si sposarono anche in Chiesa e cominciò, così, l’avventura della loro America.

Salvatore continuò a leggere ed a recitare a memoria alla sua Catèra la “Gerusalemme liberata”, lei lo ascoltava dandogli del voi e chiamandolo, come sempre, per cognome.
Ebbero sedici figli, alcuni nati anche dopo il loro ritorno in Italia. Per omaggio al Tasso, alcuni di loro si chiamarono: Tancredi, Armida, Argante e Rinaldo.

Di quel Pardini lucchese, che tanto fece del bene alla sua gente e nel mondo, oggi non rimane che una corte, tra l’Ozzeri e Lucca, che porta, per chi lo ricorda ancora, il suo nome.

… tu spira al petto mio celesti ardori
tu rischiara il mio canto, e tu perdona…

(T .Tasso)

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