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UDC: si e' dimesso il Segretario nazionale

Intervento di Marco Follini alla Direzione del 15 ottobre 2005

Cari amici,
credo che questa direzione debba essere il luogo di un dibattito vero e non di un minuetto finto. Cercherò di contribuirvi come so e come posso.
Un dibattito vero, perfino aspro, fa parte del legame tra di noi. Un partito è una associazione di uomini liberi ma anche una comunità umana e politica.
E dentro questa comunità si formano legami che non si possono spezzare, anche quando magari si hanno idee diverse. Tale è il legame che ho verso molti di voi e tale è da parte mia da più di trent’anni il legame con Pier Ferdinando Casini.

La camera ha approvato l’altro ieri in prima lettura una nuova legge elettorale.
La mia opinione, come è noto, è che servisse un’altra legge in un altro modo. Ritenevo che si dovesse fare di più per coinvolgere l’opposizione in questo tentativo. E quanto più l’opposizione ha cercato di sottrarsi tanto più sono convinto che fosse giusto e perfino utile non consentire loro di chiamarsi fuori e di menare scandalo. Ritenevo che la possibilità per gli elettori di scegliere i candidati e di non subire troppo perentorie indicazioni dei partiti facesse parte di quel diritto in più e di quel potere in più che noi per primi avevamo evocato. In una parola, immaginavo una legge in cui la furbizia e la virtù si tenessero in equilibrio, e non una situazione in cui l’una schiacciasse l’altra.
Aggiungo che noi ci troveremo, di qui a poco, a fare i conti con la contraddittorietà di due leggi fondamentali. Una legge elettorale che fa del premier la conseguenza dei partiti e l’istituzione di un premierato che ne vorrebbe fare il perno del sistema politico.
Ho preso atto, con tutti voi, che l’unico risultato possibile oggi era questo. E da segretario ho cercato di non ostacolare questo risultato. Questo era il mandato, questo è il risultato. Naturalmente per chi crede ad una legge elettorale proporzionale vera questo è appena un punto di partenza.

Ma allora qual è il punto di arrivo della nostra iniziativa, e più ancora della nostra identità? Dove ci conduce la nostra anima politica?
Noi, in questi anni, siamo stati in campo –credo- con qualche buona ragione. Avevamo alle spalle la tradizione democristiana, con i suoi insegnamenti: quelli più edulcorati del partito-mamma e quelli più aspri della grande forza che ha tenuto la guida del paese negli anni duri e che ha saputo svolgere un suo progetto di modernizzazione dell’Italia di allora. Avevamo, abbiamo davanti a noi l’esigenza di ridisegnare un’altra Italia, più europea, più competitiva, più capace di misurarsi con la globalizzazione.
I prossimi anni costringeranno la politica a scendere dal pulpito delle promesse a buon mercato e magari delle promesse fallaci, a dismettere l’abito dell’imbonimento e a farsi carico di un passaggio difficile nella vita europea e italiana. Dal welfare alle pensioni, dalla salute alla scuola, dall’industria alla ricerca ci sarà da mettere mano a progetti corposi e controversi di riforma degli assetti fondamentali della nostra vita civile e sociale. Dovremo mandare in archivio la vecchia filosofia degli interventi “a pioggia” che non garantiscono né la tutela dei più deboli, di chi ha bisogno, né la capacità competitiva dei più forti, di chi ha merito.
Per questo è così importante che, mentre come sistema-paese ci si inoltra col machete nella giungla dell’economia globalizzata e ci si attrezza per affrontare la concorrenza della Cina e dell’India, dentro di noi, dentro la nostra comunità organizziamo gli equilibri del potere, della politica, della società in modo da rafforzare le reti di coesione e di solidarietà, in modo da ripristinare una democrazia orizzontale, partecipativa, inclusiva, fondata sui corpi intermedi e sulla rappresentanza, e anche in modo da coltivare di più e meglio gli interessi generali.

Qui sta la mediazione, qui sta il centro. In un’idea di noi stessi capace di collocare gli interessi particolari nell’angolo che è loro proprio. Se non si capisce questo, non si capisce noi. E questo ossessivo, martellante richiamo alla misura, alla moderazione, all’equilibrio non è una tardiva iscrizione a un corso di buone maniere. E’ la consapevolezza che senza di questo, e rincorrendo faziosità e particolarismi, non aiuteremo il paese a salire i tornanti ripidi che ci aspettano.

Il presidente del consiglio ha spiegato agli italiani l’altra sera alla tv che io avrei una sola passione, la politica. Personalmente, ho qualche passione in più. Ma politicamente gli do ragione. La politica è passione fredda, lucida e composta. Ma è passione, non è interesse.
A Silvio Berlusconi voglio dare atto di avere condotto le cose mettendoci convinzione, carattere e un suo disegno. Ha dimostrato doti politiche di cui gli va reso merito. E chi come me, come noi si è battuto per una diversa evoluzione della nostra alleanza deve riconoscere a Berlusconi la capacità di aver tenuto largamente la coalizione sulla sua posizione e intorno a sé. Tutto questo però ci pone un problema, non ce lo risolve. Almeno a noi.

La disputa dentro la maggioranza è stata tutta qui. Abbiamo chiesto un altro centrodestra, non più piramidale, non troppo leaderistico –e non insisto su argomenti che tutti ben conosciamo- perché solo così potevamo rispondere alla domanda severa che a più riprese gli elettori ci hanno rivolto in questi anni. Vorrei evitare il sapore aspro di una disputa personale, quasi di una sfida.
Tantomeno di un’ossessione, che davvero non ho. Non c’è nessun duello in corso con Silvio Berlusconi, tutt’altro. Il problema siamo noi. Se abbiamo un senso, se siamo capaci di fare una differenza, se gli italiani che ci hanno affidato il loro voto si trovano in buone mani. Oppure se i nostri propositi politici sono di pastafrolla.
Mai come oggi il paese è di centro. Politicamente, culturalmente, perfino moralmente.
E mai come oggi la sinistra rischia di trovarsi avvantaggiata dai nostri errori. Nel 2001 siamo stati plebiscitari. Oggi il plebiscito minaccia di essere contro di noi. Ha un senso tutto questo? Quale pigrizia, quale paura, quale debolezza ci induce oggi a giocare improvvisamente al ribasso di noi stessi? Abbiamo spiegato agli italiani –e non ero il solo, mi pare- che occorreva “discontinuità”. Non si è ancora spenta l’eco di alcuni ragionamenti all’insegna del motto: “o si cambia o si muore”. E adesso sento dire che se non si cambia troppo si sopravvive più agevolmente. E’ una svolta che non mi convince, e che non mi appartiene.

Se si ritiene che occorra un altro centrodestra come condizione per essere noi stessi prima ancora che come condizione per vincere, l’argomento va svolto e il punto va tenuto fino in fondo, ad ogni costo, soffrendo e rischiando. Se invece si ritiene che l’argomento sia troppo “pericoloso”, troppo estremo ed arrischiato, è meglio non evocarlo affatto. Non è, non può essere un tema stagionale.

Come tutti voi e anche di più, devo molto al partito. E sento di dovere anche una chiarezza un po’ brutale su un passaggio che è e sarà difficile.
Legge elettorale a maggioranza, striscioni contro striscioni. Legge costituzionale a maggioranza, referendum contro parlamento. Leggi sulla giustizia particolari e parcelizzate, una è già dietro l’angolo. Non fosse stato per il mio cattivo carattere il nostro segretario amministrativo si troverebbe oggi a pagare a Mediaset il costo dei nostri spot elettorali. E’ evidente che lungo questo percorso può andarsene in fumo una parte importante di noi.
Lungo questo percorso esiste, oggettivamente, un appannamento del nostro partito rispetto alle sue stesse aspettative. Rischiamo di essere magari troppo combattivi a parole ma troppo, troppo remissivi nei fatti. A questa contraddizione concorrono molti fattori. E’ certo che vi concorro io, con tutti i miei limiti e difetti, non solo di carattere. Vi concorre anche, io credo, una delegazione ministeriale che in nome dell’unità del partito non ho mai messo in forse e che però a mio giudizio ha amministrato le sue possibilità di influenza in modo opaco e in qualche tratto non dirò ossequioso, ma almeno ripiegato.
E vi concorre infine la scelta di considerare questa legge elettorale, così com’è, come la madre di tutte le battaglie e come la fonte di tutte le libertà.
Si è detto che in questi giorni sarebbe stato celebrato un congresso surrettizio, che ha finito per modificare il nostro profilo politico. Il risultato è un partito che archivia l’argomento della leadership, derubricandolo da leale sfida politica a improbabile combinazione dinastica. Un partito che evoca le primarie e le lascia dileggiare. Un partito che ottiene una legge elettorale in cambio di un allineamento politico a cui si era sempre cercato di sottrarre. E che finisce per rinunciare lungo questa strada, passo dopo passo, magari senza rendersene conto, alla sua capacità di modificare in profondità i caratteri della proposta che la casa della libertà rivolge agli elettori italiani del 2006. Non credo fosse questo quello che ci hanno chiesto i nostri elettori. E non credo fosse questo il mandato che ci hanno affidato i delegati al nostro ultimo congresso.

Per parte mia mi sono trovato alla guida del partito tre anni fa. Eravamo una forza satellite, il 3,2 per cento costruito dentro la nicchia della campagna per Berlusconi presidente. Mi sono battuto perché ci misurassimo sulla nostra forza e sul nostro consenso e per due volte, alle europee e poi alle regionali, gli elettori ci hanno riconosciuto una percentuale quasi doppia. Dobbiamo tutti gratitudine a quanti ci hanno dato la loro fiducia. Non sono così arrogante da pensare che sia un mio merito. Ma sono abbastanza navigato da sapere che una percentuale meno positiva sarebbe stata di sicuro un mio demerito. Ringrazio per questo tutte le persone che hanno collaborato con me. Li vorrei e li dovrei citare uno per uno. Li riassumo tutti in quella straordinaria figura umana e politica che è Lorenzo Cesa. Comunque credo di rappresentare oggi a tutti i dirigenti del partito un risultato significativo, di cui sono personalmente orgoglioso. Dietro quel risultato però c’è una politica. Ed è quella politica che oggi vedo messa in forse da una attitudine che conduce verso esiti modesti per il timore di fronteggiare esiti più impegnativi.

Si apre una stagione nuova e non esistono uomini per tutte le stagioni. Questa, almeno, è la mia opinione, e questa opinione ha una conseguenza inevitabile: le mie dimissioni da segretario del partito. Chiedo al presidente di convocare il consiglio nazionale come è doveroso per tutti gli adempimenti in materia.
Resto ovviamente a pieno titolo un dirigente e prima ancora un militante di questo nostro partito a cui auguro di saper coltivare le proprie ragioni vicino al cuore politico di tanti elettori che ci hanno chiesto di esserci per cambiare e non di esserci per lasciare le cose come erano.

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