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Il discorso di apertura del 2° Congresso Nazionale dell’Udc

Marco Follini apre a Roma il 2° Congresso dei centristi

 

Questo è il secondo congresso dell’Udc. Non sarà l’ultimo.

In questi due anni e mezzo siamo stati in campo, abbiamo tenuto il punto, abbiamo cercato di fare la differenza.

634.728 immigrati sono stati regolarizzati. Merito dell’Udc, che si è battuta, da sola, perché le imprese e le famiglie potessero contare sulla collaborazione di persone, badanti e operai, che sono diventate essenziali alla loro vita e alla loro attività.

221.412 organizzazioni di volontariato potranno contare sulla deduzione fiscale di una parte delle risorse che faticosamente raccolgono. Merito dell’Udc,

che si è battuta perché chi dava di più al terzo settore versasse di meno allo Stato esattore.

231.884 contribuenti con un reddito sopra i 100mila euro continueranno a pagare un’aliquota del 43 per cento. Colpa dell’Udc che si è battuta per privilegiare i redditi più bassi e le famiglie monoreddito, difendendo la progressività fiscale e lasciando per ultimi i più facoltosi.

16milioni276mila abbonati alla televisione dovranno rassegnarsi a non fare entrare nelle loro case gli spot televisivi dei partiti nelle campagne elettorali. Merito o forse colpa dell’Udc che si è battuta perché non cambiasse a colpi di maggioranza la legge sulla par condicio.

Ci siamo dati da fare per un’Italia che fosse più libera e più forte, più unita e più equa, più gentile e più generosa. Siamo stati accanto ai soldati italiani che rischiano la vita nel deserto irakeno e da tante altre parti del mondo. Accanto a quanti la vita la dedicano agli altri. E accanto a quanti la vita

la difendono come un valore.

Abbiamo collaborato come forza decisiva di questa maggioranza a tenere l’Italia saldamente ancorata a quella grande alleanza internazionale che contrasta il terrorismo cercando di promuovere la libertà. Abbiamo collaborato a realizzare un mercato del lavoro più flessibile e un sistema pensionistico più sostenibile.

Abbiamo collaborato a far tornare allo Stato, a riportare verso l’unità del paese quelle competenze in materia di energia, di comunicazione, di grandi reti che il centrosinistra, con la sua riforma del titolo quinto, aveva allegramente disperso tra le regioni italiane.

Siamo stati tra quanti, assieme a molti altri, hanno votato e hanno difeso dall’assalto del referendum non tanto una legge, quanto un principio. Abbiamo cercato di interpretare la prudenza, la misura e il buonsenso di tante persone al cospetto delle potenzialità, delle meraviglie ma anche delle terrificanti

esagerazioni e dei rischi di manipolazione che l’ingegneria genetica può portare con sè.

E infine, abbiamo tenuta alta in questi anni la bandiera di una piccola, ma non tanto piccola forza democratica cristiana che non ha accettato né di consegnarsi, lontano da casa, alla sinistra, né di rassegnarsi all’idea di un centrodestra che si proponesse come una forza radicale di massa o come un’agenzia politica nuovista o come un partito-azienda. La rigorosa grammatica istituzionale del presidente della Camera, che nasconde ma non cancella la forte passione politica di Pier Ferdinando Casini, parla anche per noi, riassume un’identità, un progetto, un modo di essere.

Ma non è di noi che vogliamo parlare in questo congresso. E’ del paese. Oggi sentiamo tutti il morso della crisi e della difficoltà. Siamo cresciuti in mezzo all’ottimismo di navi che andavano e di grafici che salivano. E ci troviamo ora alle prese con un’Italia stanca, pessimista, ripiegata, che perde colpi, che teme il proprio declino. Un’Italia che si ritrova quasi di colpo a dover fare i conti con l’asprezza e la severità di tutti i problemi che in questi quindici, venti anni si sono accumulati sulle nostre spalle e su quelle dei nostri figli.

Vanno male, oggi, le cose. Bisogna dirlo chiaro. Il paese non cresce dentro un’Europa che cresce anch’essa assai poco. La produzione e i consumi diminuiscono. Alcune distanze sociali aumentano. I conti pubblici preoccupano. Le classifiche internazionali della competitività segnano di anno in anno il nostro passo indietro.

Eppure siamo un grande paese, che parla e affascina tanta parte del mondo. E ancora in questi ultimi anni, pur così difficili, siamo stati capaci di brevettare il codice a barre e di inventarci la scarpa che respira. Abbiamo appena conquistato una grande banca tedesca e gli autogrill delle autostrade spagnole. Facciamo volare su un elicottero italiano l’uomo più potente del pianeta, il presidente degli Stati Uniti.

Dove sta dunque la radice del nostro problema?

Il nostro paese ha vissuto un lunghissimo, interminabile 68. E ha mancato il suo appuntamento con l’89. Le due date che forse hanno scandito di più la storia e la cronaca dell’occidente, noi le abbiamo attraversate in un modo tutto nostro, e forse non nel modo che era più giusto.

La grande ventata giovanile e studentesca degli anni sessanta ha continuato a soffiare anche troppo a lungo. Ha rivendicato diritti e libertà, giustamente. Ma ha trascurato doveri e responsabilità, assai meno giustamente. Quel movimento ci ha lasciato in eredità un’idea della vita e della società in cui i

confini del proibito si sono spostati molto in là, ma il territorio degli obblighi, dei legami, della fatica, in un certo senso anche della disciplina non è stato abbastanza coltivato. La sinistra ha continuato a raccontarci che quegli anni erano stati formidabili, noi ci siamo fatti un po’ intimidire

da quella mitologia, mentre il resto del mondo girava pagina e guardava altrove.

Più di vent’anni dopo, mentre da noi si continuavano a stampare le magliette di Che Guevara e i libretti rossi del despota cinese Mao-tse-tung, nell’Europa centro-orientale un’altra grande ventata di libertà faceva crollare il muro di Berlino e allontanava dalle nostre contrade lo spettro in carne ed ossa del comunismo. Era una ventata a cui aveva concorso in modo decisivo la predicazione di Papa Giovanni Paolo secondo. Una volta di più la libertà religiosa era stata condizione e premessa della libertà a tutto campo: sindacale, imprenditoriale, elettorale, istituzionale.

Quella stessa ventata ha soffiato assai più debolmente nel nostro paese. Avremmo dovuto trarne lo spunto per ripensare noi stessi, per ancorarci a un’etica di maggiore responsabilità, per riorganizzarci in modo più competitivo, per accelerare riforme e liberalizzazioni. E invece proprio in quegli anni noi, soli nel mondo, stavamo per perderci nel vortice del giustizialismo. Che alla fine potesse essere Occhetto, con la sua gioiosa macchina da guerra, il beneficiario politico della caduta del muro di Berlino la dice lunga sulla deriva provinciale a cui il nostro paese stava per lasciarsi andare.

Di lì in poi ci siamo promessi a vicenda un esame di coscienza che non abbiamo mai portato fino in fondo.

Abbiamo vissuto stando a lungo comodamente seduti su di una montagna di debito pubblico a cui ministri disinvolti e opposizioni compiacenti hanno insieme dato una mano. Ci siamo illusi di prosperare sulle periodiche svalutazioni della nostra vecchia lira. E abbiamo visto industria privata e industria pubblica tenersi per mano e aiutarsi a vicenda in una sorta di sottaciuto consociativismo tra le grandi potenze economiche. Fino a quando abbiamo dovuto prendere atto che quella ricetta non produceva più né ricchezza né consenso. La cosiddetta prima repubblica, che ha prodotto tanta libertà e prosperità, ha infine consegnato ai piedi di quella che doveva essere la seconda una grande quantità di nodi irrisolti che tengono legato il paese. La cosiddetta seconda repubblica

quei nodi non li ha affatto sciolti.

E così oggi siamo qui, a segnare sul nostro calendario i ritardi e le occasioni perdute da molte, troppe politiche. Mancano all’appello le riforme strutturali su cui nel frattempo tanti altri paesi si sono cimentati, e paghiamo il costo di troppe vecchie consuetudini dure a morire. La sinistra quando è stata al timone del paese ha contemplato l’immobilismo e vi si è specchiata dentro a lungo. Ha privatizzato secondo convenienza politica e non ha liberalizzato.

Ha lasciato che si rafforzassero corporazioni vecchie e nuove. Ha cavalcato l’onda demagogica dell’abolizione dei ticket e della riduzione dell’orario

di lavoro. Si è trovata col vento a favore di un ciclo positivo dell’economia internazionale e non ha saputo trarne nessun vantaggio per il paese, e direi nemmeno per se stessa.

A noi, qualche anno dopo, sono capitate vicissitudini internazionali assai più complicate. Ma anche il nostro bilancio, diciamolo, è troppo magro. Tiene

l’occupazione, grazie alle leggi Biagi. Tutti gli altri indicatori, compreso quello della spesa pubblica, segnalano invece una difficoltà, un ritardo,

quantomeno una domanda ancora in cerca di risposta.

Rischia di essere meschino il rimpallo tra una coalizione e l’altra sulle responsabilità del passato prossimo e remoto. Il punto è: come uscirne. Come rimettere

l’Italia in movimento. Come scrollarsi di dosso il sentimento della ineluttabilità della crisi del sistema-paese.

Dobbiamo avere l’onestà di riconoscere che una soluzione dietro l’angolo non esiste. Se la nostra difficoltà risale indietro nel tempo non possiamo illudere il paese che se ne verrà fuori a breve né con un’esortazione, né con un anatema, né con una pozione magica. Non si cura l’economia con l’ideologia o con la comunicazione. Non serve cercare un capro espiatorio, sia esso Berlusconi oppure i comunisti. E non serve neppure un ottimismo volitivo che la realtà

si incarica purtroppo di smentire quotidianamente.

Se si procede per inerzia, o per soluzioni minimaliste, il nostro destino è chiaro. L’Italia rischia di diventare un grande museo o una grande colonia. Un paese di nicchia, che vive del riflesso delle sue glorie passate e affida la gran parte del suo futuro alla moda, alla cucina, al design staccando la

spina della competizione nei grandi settori industriali. Se vogliamo contrastare questo scenario, e noi vogliamo contrastare questo scenario, occorrerà cambiare drasticamente e radicalmente molte delle nostre abitudini e convenzioni.

Dare una scossa, come giustamente incita il presidente Ciampi, significa determinare un grandioso spostamento di risorse verso quella parte dell’economiae dell’organizzazione sociale che contiene più futuro: ricerca, innovazione, formazione. Significa premiare il merito. Significa scommettere sulla concorrenza.

Ma non ci si può illudere che una simile operazione si faccia a costo zero, tra la contentezza di tutti. Se vogliamo passare dall’economia della spensierata cicala a quella della formica operosa e parsimoniosa non possiamo immaginare che le molte cicale in circolazione saranno felici e appagate, e che le formiche a loro volta non dovranno faticare.

Per tenere il passo del mondo globalizzato dovremo lavorare di più e lavorare meglio, spendere di meno e spendere meglio, aggiornarci e muoverci molto più di quanto siamo abituati a fare. Troppi giovani, sempre di più, calcano professionalmente le orme dei loro padri, cercando più di ereditare una clientela che di costruirsi un talento. Così non funziona. Occorre una seria riforma degli ordini professionali, che liberalizzi gli accessi alle carriere. Troppi giovani, troppe famiglie, insistono ad affidare a una laurea troppo spesso letteraria e qualche volta solo teorica la speranza di trovare un lavoro. Così non funziona. Ha ragione Mario Monti: occorre puntare all’abolizione del valore legale del titolo di studio. C’è un di meno di liberalismo nella nostra politica economica che non ha prodotto più socialità. Al contrario. Ha cristallizzato squilibri e cementato privilegi.

Il nostro welfare, che è la più grande conquista sociale del secolo scorso, è rimasto fermo lì. Oggi costa di più e garantisce di meno. Tutela il bisogno, come è doveroso, ma affronta tutti i bisogni in modo uniforme, indifferenziato, impersonale, come forse non è più utile. Non si può, sia chiaro, togliere nulla del welfare ai cittadini. Ma si forse può togliere qualcosa dello Stato al welfare. Si può uscire da una logica secondo cui lo Stato è chiamato a fare tutto, e a farlo da solo anche rischiando di farlo male, e cominciare un percorso in cui lo Stato passi da produttore esclusivo a regolatore responsabile. Si può fare tutto questo se il non profit viene riconosciuto, aiutato a crescere e sostenuto economicamente con una formula -rubo un’idea a Pellegrino Capaldo- tipo l’otto per mille opportunamente adattato.

Se vogliamo investire in ricerca, innovazione, nella crescita del capitale umano –come peraltro tutti ci diciamo a vicenda- è ovvio che dobbiamo liberare risorse, e pagare dei costi. Se ci teniamo il sommerso e assistiamo impotenti alla sua lievitazione, diventa irrealistica la promessa di ridurre la pressione fiscale. Se l’evasione fiscale, nonostante i nostri buoni propositi, resta così alta, così insopportabilmente, così sfacciatamente alta, diventa irrealistica la ricerca di risorse da spendere sul fronte di tante buone cause che ognuno di noi è abituato a patrocinare. Se la spesa corrente, come è successo in questi quattro anni, cresce dal 38 al 39 per cento del prodotto interno lordo, diventano irrealistici tanti programmi di investimento. La botte piena e la moglie ubriaca non stanno assieme, perciò se vogliamo riempire un po’ di più la botte occorre che la moglie diventi un po’ più sobria.

Noi ci battiamo per un nuovo patto sociale. L’economia del paese ha bisogno di più collaborazione tra tutte le forze che rappresentano e organizzano interessi. Ma un nuovo patto ha bisogno di una sua etica, ha bisogno di una radice morale. Occorre un’etica per affrontare le difficoltà e occorre un’etica per tornare a crescere. Il governo ha il dovere di essere severo custode delle poche risorse pubbliche. E tanto più ha questo dovere ora che il paese rischia una sanzione europea che non sarebbe nostro interesse né trascurare né demonizzare. Le forze sociali devono anch’esse cercare di corrispondere alla difficoltà del momento mettendo in gioco almeno una parte delle loro convenienze. Gli imprenditori non possono restare aggrappati alla fune, comoda ma non più così robusta, dei sussidi a pioggia e degli interventi tampone. I sindacati non possono sottrarsi alla richiesta di moderazione salariale e all’esigenza di ripensare la contrattazione ancorandola meglio alla produttività. Se al tavolo della concertazione ogni parte pensa di trarre vantaggio da uno scambio alla vecchia maniera rischiamo di produrre una sorta di democrazia corporativa nella quale le parti provvedono solo a sé e coltivano il proprio orticello. Così si finisce per perdere ogni traccia di interesse generale. E la predica rivolta agli altri diventa una immeritata assoluzione dalle proprie responsabilità.

Non stiamo proponendo al paese di vestire il saio del penitente. Ma certo, non ci si addice più il vestito della festa. E una certa propensione ludica, quella per cui –ad esempio- si pagano milioni e milioni ai giocatori di calcio e si spalmano i debiti delle società su un lungo arco di anni, non ce la

possiamo più permettere.

I prossimi anni saranno inevitabilmente in salita, lealtà e verità impongono di dirlo. Ai piedi di questa salita, la politica deve ritrovare un linguaggio di realtà, girando alla larga da parole compiacenti, edulcorate e demagogiche. E deve ritrovare il gusto di scegliere secondo quello che è giusto, e non secondo quello che è comodo. Solo se risaliremo questa salita, senza nasconderci quanto sia ripida, assumendocene per intero la responsabilità, arriveremo

a una qualche positiva destinazione.

Fa parte della verità –e di quella parte della verità magari più scomoda- riconoscere che il miraggio delle due aliquote fiscali disegnato nel 2001 non è più lì. E’ cambiato il mondo, e dobbiamo cambiare almeno altrettanto. Il tema non è più meno tasse per tutti. Il tema è un fisco più equo. Anche su questo si è prodotta, noi abbiamo prodotto, qualche settimana fa la crisi di governo. Abbiamo tanto insistito per una discontinuità perché ci sembrava fondamentale, soprattutto dopo la sconfitta elettorale alle regionali, cambiare marcia. Prendere atto che non sarebbe servito un terzo modulo di riduzione fiscale che seguisse un canovaccio superato, e mettere piuttosto al centro dell’azione di governo quelle tre priorità –famiglia, impresa e Mezzogiorno- che oggi vengono recitate come un mantra a più voci un po’ da tutti ma che allora, e fino a quel punto, venivano considerate poco meno che un’eresia.

Cambiare agenda, ora, vuole dire prima di tutto lottare con molta più decisione contro l’evasione fiscale. E poi concentrare le forze sull’Irap, quella tassa di pura invenzione ulivista, con la quale il centrosinistra di una volta si è illuso di guadagnare il favore della grande impresa a spese di tutti, e che ora si trova nel mirino della corte di giustizia europea senza che dalle parti dell’opposizione sempre tanto ferventemente euroentusiasta si alzi un dubbio, non dirò un’autocritica. Ridurre l’Irap per la parte che grava sul lavoro, e vincolare strettamente tale riduzione a una crescita degli investimenti. E infine, compensare il minor gettito su questo lato con l’argine di una copertura equa, solida e affidabile.

Fa parte della verità, o almeno per quanto mi riguarda fa parte della convinzione, l’idea che una tassa che colpisce le rendite nella misura del 12 per cento a fronte del 18-19 della media europea, a fronte del 24 per cento dei conti correnti bancari, e a fronte delle cifre iperboliche con le quali tassiamo normalmente il lavoro e i redditi da impresa, tutto questo non sta più in piedi. Esiste uno squilibrio tra il patrimonio e il lavoro, tra l’economia reale e l’economia finanziaria, tra i soldi fatti facendo cose e i soldi fatti facendo soldi. E’ uno squilibrio ingiusto, e va corretto. E’ arrivato il momento di infrangere questo tabù e di alzare la tassazione sulle rendite finanziarie. Solo così si può pensare di rastrellare quel minimo di risorse che serviranno a rimettere in movimento qualche rotella del nostro anchilosato meccanismo di sviluppo.

Una politica economica più severa, più virtuosa, meno illusionista non serve a mettere in pace la nostra inquieta coscienza. Serve a rimettere in corsa il paese. Ma il passo che conduce verso le praterie dello sviluppo è fatto di riforme controverse, di liberalizzazioni non tutte indolori, di conti rimessi diligentemente in ordine, di un certo doveroso anche se non popolarissimo rigore. Non saranno lacrime e sangue, ma neppure petali di rose. Ma solo se questo passo lo sapremo attraversare, la politica si riprenderà i suoi diritti, la sua forza e la sua guida.

Un paese in difficoltà deve sapersi unire, riconoscersi come uno e uno solo. Deve legarsi di più, rafforzare le connessioni che lo tengono assieme. Qui sta la nostra ambizione politica. Qui, forse, sta la nostra virtù, o almeno la nostra utilità. Noi siamo un partito che nasce dentro l’alveo delle cose che uniscono. Siamo un partito di ispirazione religiosa e sappiamo, da dirigenti politici laici, quanto la religione sia stata e sia parte di una identità e di una memoria italiana largamente condivisa. Siamo un partito che crede nella famiglia, nel volontariato, nell’impegno, nella solidarietà. In tutte quelle cose che formano una infinita catena di comunità tra le persone e tra i loro destini.

Da molti e molti anni, nel nostro paese, il cattolicesimo politico –lo dico al presidente Prodi- è adulto. Lo è stato negli anni della Democrazia cristiana,

che seppe essere partito laico e non integralista. Lo è stato negli anni più tormentati della diaspora. E lo è tanto più oggi, in una condizione di pluralismo ma anche di comuni orizzonti ideali e culturali. Non c’è minaccia, credo, all’autonomia delle istituzioni. Lo Stato è saldo nella sua costruzione laica. E la Chiesa è libera, deve essere libera di esprimere una parola pubblica senza che diventi precetto politico. Suggerirei pertanto di non confondere il

cardinale Ruini che parla con convinzione e misura con il cardinale Ruffo di Santa Fede che armava i contadini per abbattere la Repubblica napoletana.

Non sono la stessa cosa.

Il cattolicesimo non è di per sé un’ideologia politica e non sta, ovviamente, né mai più starà in un solo partito. Ma per quanti vi credono il cattolicesimo non è neppure un orpello, una sovrastruttura. Contiene un messaggio, ha delle conseguenze, non è lettera morta. Storicamente la fede nell’aldilà ha contribuito tante volte a rendere meno iniquo e pericoloso l’aldiqua. Ha sancito il limite del potere. Ha risparmiato il rischio sempre incombente di una storia divinizzata,

di una ideologia idolatrata, di una politica infine oppressiva. Dove esiste un tessuto religioso fitto è assai più difficile che si instauri un regime. Dove esiste un tessuto religioso fitto è più facile che prevalga una prassi politica tollerante e moderata. Questo scriveva Toqueville a proposito della democrazia americana, questo dice l’esperienza della storia, questo sentono d’istinto e sulla loro pelle tante persone anche nel nostro paese.

L’incontro tra un’ispirazione religiosa e una cultura liberale ha segnato i momenti alti della vita del nostro paese. Lì, in quel luogo di incontro, cerchiamo di essere noi. Sapendo bene che lontano di lì c’è una politica che usa la religione, il che è blasfemo, oppure che c’è una politica che schiaccia la religione, il che è disumano.

Non ci sfugge certo la differenza tra quanto è dovuto a Cesare e quanto è dovuto a Dio. Non serviremmo la nostra causa se la piegassimo verso esiti clericali o integralisti che contrastano, assieme, con le nostre convinzioni e con lo spirito del tempo. E non sta certo nella tradizione ecclesiale e politica del nostro paese quella mistura di sacro e profano che va sotto il nome di "teo-con". Ma la straordinaria fascinazione che la Chiesa oggi esercita su di un’infinità

di persone dice qualcosa anche sull’Italia di oggi. E’ stato il mondo cattolico, in tutti questi anni, a denunciare il fatto che una certa politica stava cominciando a dare frutti velenosi, o frutti marci. E’ stato il mondo cattolico a metterci tutti in guardia dalle lusinghe del giustizialismo, quando impazzava il popolo dei fax dipietristi. E poi di nuovo a metterci in guardia quando dall’ampolla del dio Po si pensava di far sorgere due o tre Italie. Tante mode

in questi anni sono sfiorite, e tanti eccessi si sono rivelati fuori dalla nostra misura e opinione comune. E ogni volta la parola della Chiesa ha aiutato il paese e la politica, come una bussola preziosa, a ritrovare se stessi.

Non siamo noi, più degli altri, né destinatari né beneficiari di questa parola. Non abbiamo un diritto di esclusiva da far valere, né un eccesso di zelo da cui farci tentare. Non siamo e non saremo un partito bacchettone. Ma abbiamo il diritto, e prima ancora il dovere, di esprimere un’identità e una convinzione.

E se un pensiero alto aiuta anche a guardare per terra, verso le decisioni che nell’ordine politico è giusto prendere, credo sia corretto non lasciare quel pensiero per aria.

Ispirazione religiosa per noi significa un esercizio del potere mite e sobrio. Significa il principio della sussidiarietà. Significa responsabilità verso gli altri. Significa il rispetto delle persone, anche degli avversari. Significa un’attenzione ai ceti e ai territori più deboli, e ai paesi più lontani.

Significa un dovere in più verso le generazioni che verranno. Significa, infine, e non per ultimo, il primato della famiglia.

La famiglia italiana è una meritevole comunità, direi quasi una istituzione, a cui tutti noi –atei e credenti, mariti e playboy- affidiamo larga parte del futuro del nostro paese. Il grande poeta russo Brodskij raccontava bene, laicamente, questo valore. "In famiglia –scriveva- ci sono buche, anfratti, burroni: ma i coniugi sono l’unico tipo di padroni in possesso di quanto creano insieme, nel diletto". In modo un po’ meno lirico viene da osservare che un paese

che ha il più basso tasso di natalità in Europa, e che pure affida alla sollecitudine delle mamme, dei nonni, degli zii la soluzione dei propri più angoscianti problemi sociali –dalla casa all’occupazione- dovrebbe scommettere un po’ di più su questa risorsa così spesso trascurata.

Non avviene così. Avviene invece che lo Stato italiano, sotto forma di esattore fiscale, è solito affrontare la famiglia con raro e involontario cipiglio, e qualche volta perfino con fare un po’ manesco. Provo a fare due esempi. Se una famiglia benestante dispone di 91 mila euro di reddito e ne spende 32 mila per quattro figli non trova nessun riconoscimento fiscale per le spese a cui va incontro. Ma se quei soldi decide di destinarli al sostegno di un partito politico il risparmio fiscale supera i 6 mila euro. Per un partito il vantaggio c’è, per quattro figli non c’è. E ancora. Se una famiglia monoreddito con un figlio guadagna 24 mila euro l’anno paga imposte per 4.252 euro. Se due coniugi con un figlio guadagnano 12 mila euro l’anno a testa pagano imposte

per 2.151 euro, praticamente la metà. Mi pare un buon esempio di un finto egualitarismo che produce una vera disuguaglianza.

Il fatto è che per il fisco italiano siamo tutti single, tutti trattati come persone sole. Chi ha un solo reddito paga di più, chi ha molti figli non riceve quasi nulla. E infatti le famiglie numerose monoreddito si avviano a diventare la nuova frontiera della povertà e del disagio. Noi vogliamo combattere lungo questa frontiera, spostarla più in là. Noi proponiamo di introdurre, a partire dalla prossima legislatura, con una gradualità che non diventi né una scusa né un ritardo, il quoziente familiare. Come in Francia, come in Germania, dove il carico fiscale tiene conto della immensa differenza che corre tra chi vive per suo conto e chi, magari con lo stesso reddito, deve mantenere una famiglia numerosa. Sappiamo che si tratta di un impegno oneroso, che

va calibrato in ragione delle nostre possibilità. Ma i nostri alleati devono sapere che per noi si tratta di un impegno che vogliamo fortemente onorare.

Siamo arrivati quasi al termine di questa legislatura. Possiamo guardare a questi quattro anni, con le loro luci ed ombre. All’anno che ci aspetta, e che

nessuno di noi può attraversare col passo malfermo dell’anatra zoppa. E soprattutto alla prossima legislatura e al confronto che si è aperto tra le due coalizioni e dentro di esse.

Noi siamo stati in tutti questi anni una forza insieme costruttiva e insofferente. Abbiamo scelto questa metà campo e vi siamo rimasti con coerenza, qualche volta pagando pegno, più raramente esigendolo. Non ci hanno convinto tante leggi frammentarie in materia di giustizia. Non ci ha convinto un certo stile gladiatorio, celodurista come si usa dire, con cui qualcuno dei nostri alleati di tanto in tanto si è messo in posa. Non ci ha convinto una gestione dello

spoil-system che ha concesso troppo alla logica di una legge sbagliata, che abbiamo ereditato dal centrosinistra e che dovrà essere corretta, e concesso troppo poco alla nostra capacità di governare attraverso persone terze e non solo attraverso persone amiche. Una Rai meno legata al carro della maggioranza e un Corriere della Sera libero e indipendente non sono un patema d’animo, sono un valore. Non ci ha convinto, infine, la tentazione di opporre fazione

a fazione, setta contro setta. Non si vince la sinistra con il suo culto del particolare opponendole un particolarismo rovesciato. Si vince essendo capaci di unire il paese. Questo cercano di fare i moderati, questa è la loro ragion d’essere. E questa, appunto, è la nostra scelta.

Tante cose le abbiamo corrette, tante cose le abbiamo cambiate. Qualche altra volta abbiamo pagato lo scotto di una certa debolezza, o magari siamo stati meno incisivi di come avremmo potuto. Faccio ammenda presso di voi di tutte le volte che non sono riuscito a far valere il nostro punto di vista, ma faccio presente ai nostri alleati che a lungo andare proprio quel punto di vista che magari sulle prime suonava scomodo e fastidioso si è poi rivelato come quello più appropriato per tutta l’alleanza. Il fatto è che resta ancora per qualche verso in sospeso, direi quasi in bilico, l’identità, la figura politica del centrodestra, il suo significato di insieme. In sospeso tra la scelta europeista e una qualche forma di scetticismo. In sospeso tra il sentimento delle istituzioni e una sottile tentazione populista. In sospeso tra la consapevolezza del valore delle grandi tradizioni politiche del nostro paese e un nuovismo antipolitico ormai attempato che pure resiste a tutte le delusioni che ha suscitato. La questione che abbiamo posto, dunque, resta apertissima.

Ha pesato su di noi, su tutti noi, un profilo identitario troppo marcato della Lega. Non appartiene a noi, non appartiene agli italiani l’idea che l’Europa sia un peso, o addirittura una minaccia. Non appartiene a noi, non appartiene agli italiani l’idea che l’euro sia una condanna e che la salvezza stia nel ritorno alla lira. Non appartiene a noi, non appartiene agli italiani l’idea che si possano affrontare i clandestini con le cannoniere o che si possa mettere una taglia su un assassino o che si possa riservare la castrazione ai pedofili. E’ la legge che colpisce e che ripara. Fuori dalla legge ci sono solo grida manzoniane tanto roboanti quanto inefficaci, quanto sbagliate.

So bene che la Lega ha parlato, e magari gridato in un modo, e ha operato in un modo assai più composto. E so che certi stati d’animo, certe esasperazioni esistono nel paese. Il punto però è che noi, la coalizione, tutta la coalizione non possiamo inseguire l’opinione più estrema contando che ci porti un voto o un seggio in più. E’ questa torsione che a lungo andare minaccia il bipolarismo assai di più delle inesistenti trame neo-centriste. Un’alleanza

al passo col paese non si costruisce rincorrendo quelli più lontani, ma dando voce a quelli più vicini. Noi, l’Udc abbiamo fatto così, e tante volte siamo

stati descritti come i bastian contrari. I nostri alleati lo hanno fatto un po’ meno di noi e il conto per la coalizione, e più ancora quello per il paese, non è stato così favorevole.

E’ una china che dobbiamo risalire. Dobbiamo dare a noi stessi, alla nostra alleanza un carattere politico chiaro, convincente, capace di interpretare la maggioranza degli italiani. Quanto meglio e quanto prima riusciremo a farlo, tante più possibilità avremo di fermare la ascesa invero non irresistibile del centrosinistra.

Quello che vediamo di là, nell’altra metà campo, non ci convince. Giunto alla sua seconda edizione, l’ulivo somiglia a quei remake dei vecchi film dove i protagonisti della prima volta recitano con una certa stanchezza un copione che col passare del tempo si è fatto meno avvincente e un po’ più melanconico.

Troppi conti non tornano, da quella parte. Si erano impegnati a fare un grande partito, un timone riformista. E finiranno per festeggiare se riusciranno ad evitare la scissione della margherita. I democratici di sinistra si sono scrollati di dosso il fardello del loro passato, ma invece di presentarsi con i loro migliori dirigenti, e ne contano più di uno, vanno sempre a caccia del candidato centrista come se il passato incombesse ancora su di loro. Si avviano,

tutti insieme, a celebrare il rito delle primarie avendo deciso di votare su quello che si sa già, cioè sul candidato, e di non votare prudentemente su quello che tutti siamo interessati a sapere, cioè sul programma. Il presidente Prodi affida a questo rito il valore di un esorcismo contro le divisioni future. Ma i diavoletti evocati dall’esorcista sono pronti a nascondersi oggi e a farsi vivi domattina. Egli dice che vuole governare e non solo regnare, ma sembra intendere che affida le fortune del suo governo futuro al piglio un po’ monarchico di un re senza corona a cui i partiti hanno già sottratto lo scettro.

Dalla politica economica e sociale alle grandi scelte della collocazione internazionale del nostro paese, dal destino della legislazione sul lavoro al futuro dell’unione europea, dall’energia nucleare alla patrimoniale sempre in agguato, non c’è argomento su cui per un puro caso della sorte capiti loro di pensare la stessa cosa. Una coalizione così contraddittoria promette di governare nel segno di un frenetico e inconcludente zapping programmatico.

E quello tra loro che ha pensieri più simili ai nostri, e su molti argomenti la pensa bene, cioè l’onorevole Rutelli, continua a pensarla male –almeno dal nostro punto di vista- sulla questione fondamentale di cosa è e dove sta il centro. Ovunque, in Europa, in Italia, il centro è il cuore, il fulcro dell’alternativa alla sinistra. Lui, per la sua parte, ha scelto invece di essere una scomoda costola del centrosinistra. Qui sta il nostro dissenso. Rutelli sembra destinato

fin dalle prossime primarie a mettere la sua scheda nell’urna a favore di Prodi, mentre gli allievi di Prodi danzano disinvolti sull’orlo della scissione del suo partito. E’ questa, in verità, la cicoria che gli tocca mangiare. Ed è’ in quel labirinto, temo, che si perdono molte delle sue buone ragioni.

Non sono avversari invincibili, quelli che abbiamo davanti. Ma vincerli, o perderci, dipende largamente da noi. E’ su di noi che gli elettori prenderanno le misure. Non ci voteranno perché hanno visto lo spettro del comunismo in agguato. E neppure perché abbiamo mantenuto tutte le promesse, assolto tutti gli impegni, bruciato le tappe del nostro programma. Sceglieranno per noi se sapremo convincerli. Sceglieranno per noi se smetteremo di illuderci di avere già vinto e anche se smetteremo di rassegnarci ad avere già perso. E sceglieranno per noi se sapremo essere almeno in parte diversi da come siamo stati tutti insieme fin qui.

I conflitti che dividono il centrosinistra sono lì, messi in vetrina, offerti alla curiosità di tutti loro e di tutti noi. Sono conflitti aspri, laceranti e non sarò certo io a prenderli a modello. Ma dalla nostra parte, negli ultimi tempi, gli argomenti più controversi sul nostro destino sfiorano qualche

volta una certa reticenza, un eccesso di diplomazia, sembrano quasi svolgersi in una zona d’ombra che non aiuta a capire. Vogliamo fare un partito, unico

come è stato detto ? Lasciare i partiti come sono, nel loro ordine attuale ? Magari moltiplicarli clonandoli uno dall’altro, complice una modifica della legge elettorale che farebbe somigliare la prossima scheda a un vestito di Arlecchino ? O ancora, spezzettarli tra un localismo e l’altro, balcanizzando la rappresentanza e compiendo un singolare balzo all’indietro -dal popolarismo sturziano al notabilato giolittiano ?

Credo che dobbiamo chiarezza ai nostri elettori e a noi stessi, e mi sforzerò di essere il più chiaro possibile.

Io credo molto, noi crediamo molto nella funzione dei partiti. Le forze politiche sono la storia e in qualche modo la vita stessa del nostro paese. Nel suo ultimo romanzo Claudio Magris scrive che il partito è come il mare: possente e misterioso. Per qualche tempo s’è pensato invece che i partiti fossero aria: volatili e virtuali. E invece i partiti sono terra. Sono le radici delle persone, i loro ideali concreti, il loro vissuto, il loro incontro in carne

ed ossa. Per questo vanno presi sul serio, e trattati con cura e riguardo.

Oggi l’Italia ha bisogno di partiti più forti, meno evanescenti di quanto siano stati in questi anni, anche se meno ingombranti di quanto erano stati prima ancora. Dunque, se si prende questa strada noi siamo interessati, siamo tutt’altro che chiusi e arroccati nel nostro piccolo fortilizio. Ma come comincia questa strada? E fin dove conduce?

La casa delle libertà si è formata intorno a Berlusconi mettendo assieme forze nuove e meno nuove che inizialmente non avevano né una grande consuetudine né una grande affinità. Ci siamo coalizzati a partire da un leader e da un governo. Qui è stata la nostra forza, e qui il nostro limite. Siamo nati, come alleanza, dentro un’emergenza. E la questione che sta davanti a noi è se questa volta riusciamo a fare le cose più per vocazione che per necessità, più per ragione politica che per legame personale, più guardando alla prospettiva che alla quotidianità.

A Silvio Berlusconi io ribadisco qui, una volta di più, le ragioni della nostra alleanza. Tante volte mi è capitato di avere con lui opinioni diverse, ma non ho mai dimenticato, né sottovaluto che questa maggioranza si è formata intorno a lui e ha preso le mosse dalla sua guida. Abbiamo tutti politicamente un debito verso il presidente del consiglio e sarebbe meschino non riconoscerlo.

A Gianfranco Fini non ho bisogno di ricordare quanta parte di questo percorso abbiamo attraversato con lo stesso stato d’animo. E se oggi, a questo congresso,

abbiamo invitato tutti i parlamentari della casa delle libertà, non è stato per il rispetto di un desueto galateo politico, ma per un ragionamento su cui è giusto che cerchiamo di confrontarci tutti assieme.

Io non credo che ci possa essere un solo partito, un partito "unico" che mette insieme tutte le forze della maggioranza. Non ho una particolare ansia di militare nello stesso partito di Calderoli e credo lui possa dire altrettanto. Come ricordava proprio Sturzo "il partito è parte", e dunque per definizione non può essere tutto. Credo piuttosto –questo è il punto- che si possa lavorare per costruire un partito nuovo, un grande contenitore moderato, una forza

che stia nel solco del partito popolare europeo. Una casa comune nella quale si possano ritrovare quanti in Germania voterebbero per Angela Merkel e inFrancia probabilmente voterebbero per Nicolas Sarkozy. Un partito dove si possano appendere alle pareti le vecchie fotografie di Churchill e di De Gaulle, quella più recente di Kohl, ma dove la foto più significativa, o almeno quella che ci è più cara, sia quella di Alcide De Gasperi.

Un partito così, muovendo dai partiti che siamo, ha bisogno a mio giudizio di corrispondere ad alcune condizioni ovvie, e a qualche condizione meno ovvia.

Deve essere un partito democratico. Pluralista, non leaderista. Repubblicano, non monarchico. Rappresentativo, non plebiscitario. Un partito dove si voti, non si acclami. Dove si discuta. Dove la disputa avvenga dentro regole certe e garanzie per tutti.

Deve essere un partito moderato. Non per la gentilezza d’animo dei suoi dirigenti, che non debbono certo essere i custodi del bon ton politico e istituzionale.

Ma per la sua cultura, la sua visione, la sua idea temperata della politica e del potere.

Deve essere un partito europeista. Un partito che risponde alle difficoltà di questa stagione europea rilanciando il processo federalista lungo strade nuove e non chiudendosi a riccio nel covo delle paure e degli interessi nazionali di più corto respiro.

Occorre un’Europa dei popoli, dice Tremonti. Politica e non solo istituzionale, dice Blair. Occorre togliere di mezzo quell’eccesso di retorica per un verso e di burocrazia per un altro che non ha favorito la crescita dell’unione. Tutto vero, tutto giusto. Ma occorre anche puntare su di un’Europa che faccia più sistema, che affronti il resto del mondo a partire da una sua maggiore unità. Questo è l’interesse strategico dell’Italia, questa è la consapevolezza

di tutti i popolari europei.

E fin qui siamo nel regno dell’ovvio. Poi però occorre andare oltre, e misurarsi su argomenti che sono meno facili, magari un po’ più aspri.

Io credo che esistano due argomenti fondamentali che dal nostro punto di vista fanno tutt’uno con le ragioni di un nuovo partito.

Il primo argomento è la legge elettorale. Senza la proporzionale, mi ripeto, non si va da nessuna parte. Abbiamo tutti, o quasi tutti, in qualche momento

della nostra vita, concesso una speranza al maggioritario. Ma quella speranza è andata delusa, e forse non poteva che essere così. Il fatto è che il terreno più naturale sul quale un partito incontra i suoi elettori, li riconosce, li coltiva, li rispetta è quello dove vige la fondamentale regola secondo cui i voti si contano, non si pesano. Un partito nuovo, con ambizioni alte, quali che siano i suoi numeri, deve misurarsi su questo terreno, non può giocare

nella riserva indiana del voto marginale.

Abbiamo mancato, in questa legislatura, l’appuntamento di una riforma della legge elettorale. Abbiamo sbagliato tutti. Ha sbagliato la sinistra, che non per caso ha affidato al maggioritario le sue fortune. Ha sbagliato la margherita, che ha fatto spallucce di un argomento che pure doveva essere caro a loro quanto a noi. Hanno sbagliato i nostri alleati, che ci hanno dato retta a giorni alterni, e mai nei giorni decisivi. Forse abbiamo sbagliato anche

noi, che avremmo dovuto affrontare questo argomento col coltello tra i denti, e magari farne una condizione irrinunciabile. Ma è difficile pensare che una legge così delicata si cambi sotto l’effetto di un diktat di partito.

Tanto più –lo dico per inciso- non possiamo accettare l’idea che si possa fare, in fine di legislatura, una riformicchia che abolisce lo scorporo all’ombra

di una comoda intesa tra Forza Italia e i Democratici di sinistra. Sarebbe, questo sì, un inciucio a cui speriamo che Fassino non si presti e a cui chiediamo a Berlusconi di non prestarsi.

E il secondo argomento, il secondo passaggio che conduce al nuovo partito è il ricambio della leadership.

Un nuovo partito richiede un grande punto e a capo nella nostra strategia politica, e nella sua guida. Se dovessimo continuare così, come siamo, quelli

che siamo, nel modo in cui siamo stati fino ad oggi, non avrebbe molto senso tentare di intraprendere questa strada. Stiamo parlando alla luce del sole,

senza pensieri doppi e senza pensieri obliqui. Non è un argomento contro Berlusconi. E non è un argomento a favore di Casini, che mi sembra tutt’altro

che ansioso di fare cose diverse da quelle che ha fatto fin qui. Se si prende il largo nessuno può dire prima quale sarà il punto di approdo. Ma se si prende il largo, è segno che la riva di partenza l’abbiamo lasciata alle spalle.

Il presidente Prodi sembra molto affezionato allo schema politico del 96, quello che dieci anni fa lo fece molto provvisoriamente vincere. La mia idea è diversa. Vorrei che fossimo capaci di sfidare la sinistra sull’innovazione, non sulla riedizione. E credo che un candidato, scelto da tutti, democraticamente, magari facendo anche noi le primarie, come ha suggerito Formigoni, possa essere parte di un copione che cambia. E’ stato il leader, fin qui, a definire

largamente la nostra alleanza. Oggi deve essere l’alleanza ad esprimere il leader. Pensare e provvedere a un centrodestra che non si fermi a Berlusconi, che guardi oltre e vada oltre, come lui stesso ha invitato a fare, significa rendergli un merito, non ordire una trama. Siamo chiamati, io credo, a fare questo, o almeno a cercare di farlo. E a spezzare l’incantesimo per il quale di queste cose si parla con paura o con pudore. La questione del ricambio generazionale, d’altro canto, non fa parte di un tardivo mito giovanilistico. E non è solo un problema della politica. E’ un serio problema del paese.

Negli altri paesi europei, e più ancora nel resto del mondo, la ruota dell’avvicendamento sul ponte di comando gira in modo perfino vorticoso. Alla guida

degli stati, dei governi, delle aziende, dei media, delle scuole si inseguono trentenni e quarantenni. Noi battiamo il passo. Nelle università, nei giornali, negli uffici, perfino nello spettacolo si sono consolidate gerarchie e baronie che è sempre più difficile mettere in discussione. E’ una logica, non è un caso. Ma è una logica che va corretta, se si vuole stare al passo coi tempi e al passo con gli altri.

Questo paese a suo tempo ha mandato in pensione Alcide De Gasperi, a cui pure doveva così tanto. Ma oggi sembra riservare in tutti i campi ai suoi dirigenti

più attempati una deferenza perfino esagerata. Se l’ingegner Mincato dopo un’onorata carriera manageriale e due mandati lascia la guida dell’Eni per diventare

presidente delle Poste viene descritto come fosse la vittima di una inspiegabile decapitazione. E se a qualcuno capita di considerare che gli articoli di Enzo Biagi o Giorgio Bocca, letti e riletti, non sembrano più ora degli straordinari capolavori di originalità si alza subito il coro che grida alla lesa maestà. Per non dire della presidenza della Rai dove la ricerca di un consigliere anziano ancora più anziano è diventato ormai una sorta di gioco di società. Nulla di personale, rispetto per tutti e ammirazione per chi sta sulla breccia da tanto tempo. Ma è ora di cambiare.

Se ci saranno queste condizioni, tutte queste condizioni, se riusciremo a farle maturare, io dico che dobbiamo metterci in gioco. Intanto siamo qui, in gioco con il nostro partito. Ed è chiaro a tutti noi che la nostra forza, la nostra presenza, la nostra iniziativa è la base di molte cose, di molti sviluppi.

Abbiamo cominciato la nostra avventura due anni e mezzo fa. L’abbiamo cominciata con una speranza che era molto lontana da una certezza. Abbiamo unito i partitini che eravamo tra mille reciproche diffidenze. Abbiamo subito qualche addio e forse qualche arrivederci. Ma abbiamo incontrato lungo i tornanti faticosi e ripidi di questi anni molti elettori in più. Dalle prime amministrative alle europee alle regionali abbiamo sempre conquistato nuovi consensi.

E lo abbiamo fatto, qualche volta, sfidando previsioni non sempre disinteressate che ci votavano all’insuccesso.

I numeri sono lì, li conosciamo. Sei, sette italiani su cento ci danno fiducia. Ricordo sempre che il giorno del nostro primo congresso una società di sondaggi, allora molto blasonata, ci gratificò della mastodontica percentuale dell’1,5. Ne fummo colpiti, ma non proprio affondati. Sono passati poco più di due anni, quella società ha chiuso i battenti e noi siamo qui, con un certo consenso in più. E non ci leveremo di torno così facilmente.

Dietro un partito, dietro il suo consenso c’è l’orgoglio e la fatica di tanti militanti. Ci sono sezioni tenute aperte mettendo di tasca propria i soldi per pagare la luce e il telefono. Ci sono passioni, controversie, baruffe. E anche qualche volta difficoltà e amarezze tra di noi, al nostro interno. Così è fatta la vita di un partito, così è stata ed è la nostra. Io sento di dovere gratitudine ad ognuno di voi per il contributo che ha dato a tenere in piedi e a rendere più forte il nostro partito. Gratitudine ai militanti, tutti. E ai dirigenti, tutti. Dal presidente Buttiglione al vicesegretario Tassone, dai ministri Baccini e Giovanardi ai capigruppo D’Onofrio e Volontè, dal presidente Cuffaro a Lorenzo Cesa, dai sottosegretari ai parlamentari. Tutti insieme,

per la forza che siamo, non siamo una forza usa e getta. E non siamo neppure una fragile passerella protesa verso il partito che sarà, quando sarà. Io

credo che passi attraverso l’Udc, la sua evoluzione, la sua disponibilità, che passi attraverso tutti noi la possibilità di rimettere in campo una coalizione e una proposta che possa vincere nel 2006 e dare una rappresentanza solida e duratura a tanti moderati che cercano casa.

Per questo ci serve tutta l’unità di cui siamo capaci. E ci serve altrettanta chiarezza tra di noi.

Tante persone, tra di noi, non sono appagate e soddisfatte dello stato del partito. Io sono tra questi. Vedo troppe chiusure, troppi steccati messi lì a difesa e protezione dell’esistente. E vedo troppe vocazioni a ridurre il partito a una somma di correnti, come se ci potessimo baloccare con i nostri stessi difetti di qualche tempo fa. Corriamo il rischio di costruire delle arciconfraternite senza potere. Cosa che non porterebbe vantaggio al partito e neppure ai confratelli.

E’ paradossale, quando il partito arrancava elettoralmente eravamo come placati e pacificati dalla nostra stessa debolezza. Oggi che siamo meno deboli scontiamo qualche problema e qualche disagio in più. Per giunta un partito che cresce, come in questi mesi è capitato a noi, desta attenzioni, non tutte e non sempre amichevoli. Tanto più –a questo punto- ci dobbiamo attrezzare, organizzarci meglio, convivere in modo meno egoistico, aprirci tutti di più. Lo dico con senso critico ma anche con altrettanto sentimento autocritico.

Da parte mia spero che non aleggi su questo congresso il fantasma di un segretario accentratore. Ho fatto del mio meglio per andare nella direzione opposta.

E l’ho fatto convintamente, a partire da un assetto nel governo che togliesse di mezzo il mio doppio incarico, non proprio bramato, e garantisse di più,

in qualche caso, chi era meno d’accordo. Questa convinzione per me è un punto fermo. Il problema non è, credo, la pazienza e la tolleranza che dobbiamo

gli uni agli altri. Il problema è parlare al paese, e prima ancora ascoltarlo. E non dimenticare mai che gli equilibri nella classe dirigente non si formano e non si conservano sotto una campana di vetro ma si misurano giorno per giorno con le attese degli elettori che ci votano.

Stiamo attenti a non vivere il partito come un ritrovo di nobili signori intenti a celebrare le loro reciproche virtù. Il partito, intanto, è cambiato e sta cambiando. Una nuova dirigenza si affaccia alla ribalta. Nuovi equilibri prendono il posto di quelli tradizionali. Donne e giovani chiedono una rappresentanza che finora, va detto, non si sono vista riconosciuta come sarebbe stato equo e anche utile. Anche per noi vige la regola dell’alternanza, anche per noi

vale il ricambio generazionale, anche noi dobbiamo essere più aperti alla competizione.

In questi anni abbiamo cercato di rappresentare un’idea democristiana dentro un sistema politico che non faceva più perno sulla Dc. Per quanti di noi sono cresciuti rimirando quella grande costruzione politica, quel grande castello centrale e cruciale che ha governato per quasi mezzo secolo è stato difficile rassegnarsi a contemplare le rovine. E infatti abbiamo cercato di ricostruire quello che potevamo, sapendo che nulla torna mai uguale a prima.

Della Dc non tornerà mai più, per nessuno di noi, la certezza del potere e del governo. Quella certezza che alla fine si è rivelata molto più fragile di come veniva rappresentata da chi la viveva e da chi la avversava. Della Dc non torneranno più gli artefici del declino e della consumazione; non torneranno, almeno, nel cuore della pubblica opinione. Ma della Dc dovrà tornare prima o poi il gusto di confrontarsi in un partito ampio e variegato. Della Dc dovrà tornare una moderna attitudine a governare dal centro, dai paraggi dell’elettore medio, dove usualmente sono più profonde le radici e le ragioni del buonsenso.

Della Dc dovrà tornare un’idea politica che cerchi l’interesse generale e non si accontenti di cavalcare di volta in volta l’onda di piena che lascia solo

un po’ di schiuma dietro di sé.

"Il potere –scrisse Aldo Moro, uomo di governo e di pensiero- conterà sempre di meno. E conterà di più una parola detta discretamente, rispettosa e rispettabile".

Ecco, discretamente e rispettando ognuno, cercheremo di parlare a tutti gli italiani.

 

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