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II CONGRESSO NAZIONALE UDC

BRUNO TABACCI

Contributo alla discussione congressuale

 

Tre anni fa l'Udc celebrava il suo primo congresso nazionale tra molte speranze e poche certezze. Dovevamo raccogliere le forze di partiti diversi che si univano dimostrando che avremmo saputo tenerle insieme, riprendere il dialogo tra amici che avevano smesso di parlarsi a partire dalla diaspora democristiana, riaffermare il senso dell'esistenza di un partito legato ai valori laici della tradizione cattolica popolare in Italia, ricostruire una rete di presenza sul territorio che gettasse le basi per far recuperare al Paese il gusto e la passione per la politica intesa nella sua accezione più alta, di impegno per raccogliere le istanze dei cittadini e proporre soluzioni nell'interesse generale, nel buio di una lunga notte per l'impegno civile che si protraeva dal 1992 e di cui non si vedeva la fine.

Era una sfida durissima quella che avevamo davanti a noi, ricchi come eravamo di idee ma poveri di consensi, spesso guardati con sospetto, ancor più spesso trattati con un misto di fastidio e sufficienza dai nostri avversari ma perfino da qualche alleato che aveva fretta di riporci per sempre nell'armadio dei vecchi arnesi della politica ormai inservibili.

A nostra disposizione avevamo ben pochi strumenti: potevamo contare solo sul nostro fiuto politico, la nostra dedizione e competenza e soprattutto sulla speranza di poter essere trainati dalla vittoria della Casa delle Libertà alle elezioni politiche del 2001. Eravamo parte della maggioranza di governo, avevamo un leader diverso da noi che però disponeva di grandi mezzi e grande consenso nel paese: come nani sulle spalle di un gigante avevamo sì il dovere di far sentire la nostra voce e offrire le nostre indicazioni sul cammino da tenere ma dovevamo soprattutto sperare che il gigante non si inceppasse. Non eravamo insomma, del tutto padroni del nostro destino.

Sono trascorsi tre anni da allora e oggi possiamo, con relativa sicurezza, dire di aver vinto quella sfida.

Non siamo più un progetto di partito ma siamo un partito vero, aperto, rispettato e apprezzato, con una tendenza a riprendere le procedure democratiche: con il nostro segretario Marco Follini abbiamo raddoppiato i nostri consensi. L'abbiamo fatto senza mai rinunciare alle nostre idee e ai nostri valori, portando sempre alta nel paese la bandiera del moderatismo e del riformismo.

Quello che rende la nostra impresa ancora più straordinaria ed entusiasmante è che ci siamo riusciti essendo costretti a scendere dalle spalle del gigante. Ci siamo riusciti nonostante gli errori di una maggioranza e di un governo che anziché rappresentare i nostri punti di forza spesso ci hanno frenato. Così, mentre il governo e la maggioranza del 2001 si sono avvitati in una lunga crisi, noi siamo cresciuti, costantemente.

Oggi nessuno ci può accusare di averlo fatto a spese degli alleati; di aver tramato alle loro spalle per interessi di bottega. Ogni volta che il governo e la maggioranza hanno adottato scelte che non condividevamo abbiamo lavorato apertamente, lealmente, all'interno del governo, delle Camere, delle commissioni parlamentari, per aiutare la Casa delle Libertà a correggere gli errori di rotta. Molte volte siamo stati ascoltati: come nel caso delle fondazioni bancarie, dell'immigrazione, dell'energia, della crisi della Fiat ed il governo e la maggioranza hanno potuto giovarsene. Molte altre purtroppo non siamo stati ascoltati ed il risultato è sotto gli occhi di tutti: dopo l'inversione di tendenza dell'economia mondiale tra la fine del 2001 e l'inizio del 2002 avevamo ribadito più volte la necessità di riscrivere il contratto con gli italiani. Sullo stillicidio di interventi legislativi votati ad inseguire questo o quel singolo processo avevamo avvisato che il paese non ci avrebbe capito se non si fosse affrontata una riforma complessiva del sistema giudiziario italiano; sui crac finanziari che hanno colpito duramente le tasche di un milione di italiani a fronte di evidenti responsabilità del sistema bancario e dell'intreccio tra banche e industria avevamo avvertito a lungo dell'esigenza di una riforma complessiva del sistema dei controlli e delle autorità indipendenti per trasmettere un segnale di attenzione ai risparmiatori traditi; sulle riforme istituzionali avevamo criticato severamente la riforma approvata a maggioranza dal centrosinistra al tramonto della precedente legislatura invocando una correzione bipartisan dell'articolo 117 della Costituzione.

Non siamo stati ascoltati e gli italiani non hanno tardato a farsi ascoltare. L'hanno fatto in tutti i passaggi elettorali che si sono susseguiti dal 2002 in avanti: elezioni suppletive, elezioni europee. Ad ogni occasione la Casa delle Libertà, la maggioranza più ampia dal dopoguerra ad oggi, è risultata sconfitta. E mentre la Casa delle Libertà e in particolare il partito di maggioranza al suo interno, il partito del premier, vedevano costantemente ridursi il terreno sotto i piedi, l'Udc cresceva.

Convinti a quel punto, o forse illudendosi come chi chiude la porta di casa vedendo arrivare una gigantesca valanga dalla finestra, che il problema fossimo noi, gli alleati ci hanno costretto ad accettare anche l'ultimo sacrificio: a far entrare nel governo il nostro segretario, Marco Follini. Poi sono arrivate le elezioni regionali dello scorso aprile. E nonostante il tentativo di nasconderci nel cono d'ombra di Forza Italia la maggioranza ed il governo sono entrati in crisi, mentre l'Udc ha accresciuto ancora un po', sia pur di poco, i suoi elettori.

Siamo giunti così ad uno snodo fondamentale, non solo del nostro cammino ma anche di quello politico del paese. Persino chi non voleva capire che una simile serie di bocciature per la maggioranza non poteva che essere provocata da un giudizio di insufficienza alla maggioranza stessa, si è dovuto ricredere.

In particolare un giudizio che ha investito in prima persona la figura del premier. D'altronde in un sistema che personalizza fino all'eccesso ossessivo intorno alle figure dei leader dei due schieramenti qualunque questione, non sarebbe pensabile che i leader stessi possano menare vanto esclusivo dei successi che ottengono e sgravarsi delle responsabilità degli insuccessi.

Ecco perché, caduto anche l'ultimo alibi degli alleati indisciplinati che disturbano il manovratore, oggi l'Italia viene governata da un nuovo governo Berlusconi, ma non ha più all'interno del suo governo il segretario del nostro partito, Marco Follini. Si tratta di una novità che abbiamo caldeggiato e poi apprezzato, che consente all'Udc di ritrovare la sua guida autonoma e presente a tempo pieno pur restando saldamente e con convinzione ancorata al suo entroterra naturale, quello di un'area moderata alternativa a quella della sinistra.

Ad un anno dalle elezioni politiche del 2006 l'Udc si trova così a dover affrontare una nuova sfida, complessa tanto quanto quella vinta dopo il congresso del 2002. Individuare il percorso e gli strumenti per giungere al 2006 in condizione di poter competere con il centrosinistra, impedire all'altro schieramento di conquistare la guida del paese senza aver mosso un dito per meritarlo.

Che la maggioranza di cui facciamo parte abbia preso coscienza dei problemi dando vita ad un nuovo governo si tratta di un elemento di novità positivo ma certo non sufficiente ad invertire la rotta.

Nell'immediato occorrerebbe iniziare ad affrontare i problemi reali degli italiani, a partire dalle questioni economiche ancora irrisolte del paese.

Oggi, ce lo confermano anche le analisi statistiche del Censis in relazione al voto regionale di aprile: gli italiani sono pronti ad accettare nuovi sacrifici purché si indichi loro un obiettivo, gli si mostrino con onestà le inefficienze del sistema e ci si assuma con senso di responsabilità l'onere di rimuoverle.

Siamo il paese con la più elevata quota di economia sommersa nell'ambito dei paesi Ocse. Il nostro sommerso è mediamente il doppio rispetto agli altri, ammonta a non meno del 25% del Pil, probabilmente si avvicina al 30%. Se per anni si è potuto pensare che il sommerso potesse rappresentare un serbatoio di riserva per la nostra economia oggi dobbiamo prendere rapidamente atto che non è più cosi. I vincoli europei, che fortunatamente abbiamo sottoscritto grazie anche all'impostazione europeista offerta al nostro paese dalla politica degasperiana, ci impongono di essere virtuosi nei nostri conti pubblici. Ma un sommerso delle proporzioni di oltre un quarto dell'economia vanifica ogni seria politica nazionale in campo economico. Così, mentre il paese scivola in termini di competitivita’, i cittadini nemmeno si accorgono di un taglio delle imposte da 6 miliardi di euro. Né, in queste condizioni, potrebbero accorgersene.

Occorre allora avviare un immediato e radicale cambio di direzione. Occorre introdurre il sistema del conflitto di interessi tra i contribuenti, rivoluzionando il sistema delle detrazioni, per far emergere larghi strati di economia nascosta.

Vacillare di fronte a questa esigenza sarebbe per lo più miope: per senso di responsabilità non lo si potrebbe nemmeno accettare se fossimo un partito del 40%, figurarsi se lo si può accettare ora che raccogliamo il consenso di 7 italiani su 100. C'è qualcuno che pensa che siano meno di 7 su 100 gli italiani che pagano le tasse e patiscono sulla loro pelle le furbizie di altri? E c'è qualcuno che pensa che anche tra chi non le paga non ci siano molti cittadini che di fronte a servizi più efficienti sarebbero ben contenti di emergere davanti al fisco?

Ecco allora la sfida che si presenta davanti a noi da qui al 2006: presentare un nuovo sogno agli italiani. Un sogno meno costruito sulle illusioni e più sulle certezze, sulla possibilità concreta di realizzarlo investendo il paese di una missione anche impegnativa, ma condivisa e ineludibile: la sua modernizzazione, la sua europeizzazione convinta. In caso contrario un paese europeo nella moneta ma provinciale nell'economia sarà un paese sempre più diviso al suo interno, vittima di uno strabismo paralizzante come quello di cui già oggi paghiamo le conseguenze.

Un sogno in cui il sistema bancario italiano si apre a criteri di efficienza e competitività, in cui la tenuta di un conto corrente per una persona fisica o un'azienda non costa il triplo rispetto al conto di una banca di un altro paese, in cui i risparmi di una vita non vengono risucchiati in prodotti finanziari inventati per trasferire il peso delle incapacità industriali sui cittadini; un sogno in cui le banche non si muovono tenendo in pugno l'arbitro del sistema e giocando insieme a lui al risiko dell'esercizio del potere su industria e giornali; un sogno in cui chi ha acquistato i monopoli che appartenevano allo Stato nel campo delle telecomunicazioni, delle autostrade, delle assicurazioni, dell'energia non si sostituisce allo Stato stesso fornendo meno servizi per intascare le tariffe che preferisce, ma un sogno in cui, attraverso un sistema dei controlli efficiente, i mercati si liberalizzano fino in fondo, la concorrenza si realizza pienamente con l'effetto di migliorare l'efficienza dei servizi riducendone i costi per i consumatori finali.

Un sogno in cui la Sanità non è più modellata ad uso e consumo dei medici e degli infermieri ma dei malati, in cui la giustizia non ruota intorno a giudici e magistrati ma ai cittadini in attesa di sentenze, in cui la scuola non fa vibrare la campanella per insegnanti e bidelli ma per gli allievi.

Per realizzare questi obiettivi però dobbiamo far tornare la politica al suo posto.

Non possiamo più accettare supplenze o timidezze. Occorre ritrovare lo spirito di una proposta politica alta e di qualità, di un progetto di guida del paese che abbandoni l'angolo buio in cui è stata relegata la passione civile per tredici anni per lasciare il campo ad altri poteri meno trasparenti e democraticamente governabili.

Noi, la nostra storia è lì a testimoniarlo, abbiamo la cultura di governo per riuscirci.

E' il paese a non credere più in scorciatoie, nelle potenzialità taumaturgiche dell'uomo solo al comando, in questo bileaderismo che ingessa il sistema e con la presunzione di semplificare al massimo i problemi finisce col non riuscire mai a risolverli. E' il paese a non avere più fiducia in questo bipolarismo degli estremi in cui conta vincere, non attrezzarsi per riuscire a governare, conta arruolare il cinquantunesimo della truppa anche se non ha nulla in comune con gli alleati, non mettere insieme forze omogenee che sappiano realmente dialogare.

Anche su questo terreno non possiamo più accettare infingimenti. La riforma costituzionale che trasforma il sistema parlamentare in sistema presidenziale vergognandosi di ammetterlo non può essere sostenuta. Rispondere ad un eccesso di leaderismo scommettendo su un leaderismo ancora più accentuato sarebbe fuorviante. Non possiamo ripetere l'errore del centrosinistra approvando l'ennesimo obbrobrio di riforma a maggioranza. Né possiamo accettare la dichiarazione dell'onorevole D'Alema che ritiene che indebolire l'attuale bipolarismo rappresenti un tentativo di indebolire la democrazia. Non esiste solo questo bipolarismo, che è pure il più imperfetto, così come non esiste quest'unico sistema politico nell'alveo della democrazia. O forse l'onorevole D'Alema ritiene meno democratici del nostro i sistemi di Spagna, Germania, Francia o Inghilterra?

Siamo convinti che il sistema parlamentare costituisca il modello più rispondente alla realtà italiana, che nel suo ambito sia necessario un rafforzamento del ruolo dei partiti, purché si tratti di partiti veri, democratici, collegati alle realtà locali e in grado di raccogliere le istanze che provengono dal territorio. Né un sistema elettorale proporzionale con sbarramento al 4-5% impedirebbe la permanenza del bipolarismo e della democrazia dell'alternanza. Allo scandalo dei 28 gruppi che salgono al Quirinale per le consultazioni per la formazione del nuovo governo sostituiremmo non più di cinque o sei partiti in grado di raggrupparsi in due coalizioni omogenee al loro interno. Sarebbe questa un'opzione meno democratica?

Questo è il terreno su cui una sfida aperta ad ogni risultato con il centrosinistra nel 2006 è ancora possibile. Possiamo arrivare all'obiettivo in tanti modi. L'unico modo in cui siamo sicuri di mancarlo è quello di arrivarci con una coalizione uguale a se stessa, che ripropone meccanicamente lo stesso schema a partire dalla riproposizione del leader.

E' stato lo stesso Berlusconi a proporre un'iniziativa per avviare un rinnovamento al nostro interno: la nascita del nuovo partito dei moderati. La proposta può essere buona o cattiva, di per sé non significa nulla se non la si riempie di contenuti.

Noi infatti non l'abbiamo respinta a priori. Possiamo senz'altro offrire i nostri pieni e leali sostegno e partecipazione se il nuovo partito rappresenterà la costola italiana del Partito Popolare Europeo. Se sarà un partito costruito dal basso, democraticamente, la cui classe dirigente si formi nel crogiuolo dei congressi provinciali, regionali e nazionali e non emerga dai palcoscenici urlanti ma vuoti delle convention; un partito capace di dotarsi di una leadership plurale, di valorizzare i suoi uomini e le loro idee.

Il progetto c'interessa se serve a ricreare una politica di qualità non basata sulle deleghe al leader, ma una politica che sappia partire dal basso, che sappia ascoltare la gente.

Così avremo non uno, ma molti leader, perché molte sono le esigenze e le sensibilità dei cittadini. Una società complessa necessita di soluzioni complesse, di molte risposte, molte competenze, molte teste pensanti dunque.

Il nuovo partito può essere una strada ma di sicuro dev'essere un mezzo, non un fine. Se è una trovata per ripresentare la politica delle imposizioni, per farci accettare tutto, allora non va bene. Non vanno bene i tentativi di zittire le voci fuori dal coro. Se fossero state ascoltate con più attenzione in passato ora non ci ritroveremmo in questa situazione. Il nuovo partito serve se si radica nel solco del Partito Popolare Europeo, se sa richiamare i valori della tradizione laica cattolico-riformista in una visione moderna della società e delle istituzioni, se sa cogliere le molte sfumature dell'elettorato moderato italiano.

Non serve se lo si costruisce per farne il megafono di un solo leader o di un gruppo ristretto di persone che ruotano attorno al leader.

A chi, come noi, era abituato a raccogliere consensi del 35-40% degli italiani, la difesa dell'orticello non interessa. Ma se non c'è spazio per comunicare su questo terreno comune nell'interesse del Paese allora si sappia che dal nostro orticello sappiamo produrre frutti ben più preziosi di altri e in questi anni l'abbiamo dimostrato con i numeri. Perché sappiamo dissodare il terreno della politica, sappiamo seminare la politica, sappiamo attendere che i frutti della politica maturino e sappiamo coglierli quando è il momento. E il momento per noi è arrivato.

D'altro canto qualcuno crede ancora forse che le novità che accadono nel campo del centrodestra non si riverberino in quello del centrosinistra? Di là cantano già vittoria, la sentono, quasi la accarezzano. Il profumo della vittoria inebria. E' successo anche a noi nel 2001, e prima ancora a loro nel 1996 e prima ancora a noi nel 1994. Chi sente che sta per vincere dimentica con chi sta per vincere. Noi abbiamo vinto con Bossi, Prodi vuoi rivincere con Bertinotti?

Peccato che la politica sia cervello ma anche e soprattutto passione. E i matrimoni d'interesse prima o poi sono destinati a fallire se si sta insieme senza avere molto altro in comune.

Ecco perché il profumo della vittoria potrà anche inebriarli, ma il giorno che dovessero vincere, si ritroveranno con gli stessi problemi che abbiamo dovuto affrontare noi in questi anni, problemi di ingovernabilità: e allora occorrerà rimettere mano a questo bipolarismo e a questa legge elettorale. Si potrà pur rimanere in uno schema bipolare ma l'assetto dovrà essere completamente diverso.

E, proprio puntando a rafforzare la democrazia italiana, pensiamo che superare l'attuale modello bipolare che non funziona sia indispensabile, anche sostituendolo con un altro modello bipolare, certo, e per questa via siamo convinti di accrescere il grado di democraticità delle decisioni in Italia.

Noi ci candidiamo a contribuire a costruire questo assetto, ad avere un nostro ruolo in esso, rimanendo nel nostro alveo naturale, quello dei moderati: la lunga notte dell'impolitica, dell'antipolitica sta per finire; gli italiani torneranno a chiederci di risolvere i loro problemi, di aiutarli a recuperare potere d'acquisto per i loro stipendi, competitivita per le loro imprese, istruzione e lavoro per i loro figli, servizi efficienti per le loro necessità di vita quotidiana.

E allora, tornando la politica, gli italiani non potranno che aprire il dialogo con chi conosce meglio il linguaggio della politica. Dopo gli anni dell'antipolitica qualcuno busserà alla porta di chi possiede cultura di governo. Dobbiamo farci trovare pronti.

E' bene che il secondo congresso nazionale dell'Udc apra un dibattito senza infingimenti su questi argomenti.

Possiamo verificare il senso dell'iniziativa di Berlusconi; poi per farlo con serietà dobbiamo porre le basi per un rilancio del nostro partito. Un rilancio deciso, politico e organizzativo.

I risultati elettorali ormai indicano lo spazio per un partito vero. Ma dobbiamo riprendere a vivere all'interno di una logica democratica condivisa.

Le posizioni diverse sono utili per far crescere il partito. La vita interna deve essere rispettosa di tutte le posizioni.

La proiezione esterna del partito le deve valorizzare, nella consapevolezza che esse sono un punto di forza e non di debolezza.

Lo stesso si può dire per le articolazioni territoriali. Si tratta certo di un partito nazionale, ma pur sempre di caratterizzazioni regionali che rappresentano il modo di raccordarsi direttamente con la nostra gente.

Un partito democratico ha in sé la forza di crescere. Un partito leaderistico si spegne nei personalismi e negli opportunismi.

Questo vale sia nel modo di compiere le scelte politiche sia di individuare i gruppi dirigenti che di volta in volta sono ritenuti i più adatti a rappresentare il partito, raccordandolo con le attese della gente.

Questo nostro congresso può essere decisivo, a patto che sia vero.

Per questo mi rivolgo agli amici dell'Udc che hanno sincera passione politica perché si misurino sia all'interno che all'esterno del Partito con una impostazione politica rigorosa e costruttiva aprendo un dibattito ampio e libero.

Se riusciremo a fare questo, avremo dato insieme un formidabile contributo non solo al rilancio dell'Udc ma soprattutto alla evoluzione positiva del sistema politico italiano.

 

 

 

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