logo Fucinaidee

La crisi di nervi sul cambio di nome a Strasburgo svela la crisi identitaria del Pd

di Beppe Santini

E’ bastata la proposta di modificare il nome del gruppo europeo a cui appartiene il Pd per scatenare nel partito una crisi di nervi. La presidente Garcia Perez vorrebbe, in vista delle Europee, togliere la dicitura “democratici” e tornare al vecchio nome: “Gruppo del Partito del Socialismo Europeo”, una piccola rivoluzione semantica che rappresenterebbe però anche un segnale politico. Ma per i Dem la parola “democratici” è irrinunciabile, e fonti del Nazareno hanno dovuto smentire quasi in tempo reale che la segretaria si fosse detta favorevole. Potrebbe sembrare una questione di lana caprina, ma in realtà la disputa sul nome nasconde la mancanza di una precisa identità del partito guida della sinistra italiana, nato da un compromesso che nel tempo ha rivelato tutte le sue contraddizioni. In questo senso, basta ricordare una vicenda emblematica che risale a dieci anni fa, quando l’allora segretario pro tempore Epifani decise di organizzare a Roma il congresso del Pse, una mossa che per gli ex Popolari metteva in discussione lo stesso atto costitutivo del Pd, tanto che qualcuno arrivò a minacciare la scissione, non avendo alcuna intenzione di entrare a far parte del socialismo europeo. Era stato questo, del resto, l’impegno preso dai Ds, altrimenti la Margherita non si sarebbe mai sciolta. L’accordo, con qualche bizantinismo, era stato sostanzialmente rispettato: nel parlamento di Strasburgo, infatti, il Pd entrò a far parte del gruppo “Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici” con dentro il Pse ma anche altre forze politiche. L’obiezione fu che se il Pd organizzava il congresso dei socialisti europei, significava che quel patto era divenuto carta straccia. Da qui la minaccia, neanche troppo velata, di una scissione: se il Pd avesse compiuto quella “mutazione genetica”, sarebbe stato automaticamente “annullato lo scioglimento della Margherita”.

Epifani riteneva invece l’approdo definitivo al Pse “un segno di appartenenza che spiega quali sono le nostre radici e i nostri legami”. Due posizioni e due linguaggi completamente diversi, insomma, che fecero affiorare tutte insieme le ambiguità del patto di potere tra ex comunisti ed ex democristiani di sinistra nato dall’aspirazione del dossettismo a unire i cattolici di sinistra con i comunisti, un disegno che aveva preso corpo negli anni del contrasto al riformismo di Craxi e che si sarebbe poi (malamente) realizzato, appunto, nel Pd. Un anno dopo, nel 2014, Renzi riuscì a trovare un accordo per entrare a pieno titolo nel Pse, anche se il nome del gruppo al Parlamento Europeo è sempre rimasto invariato.

Ma la vera questione politica resta l’impossibilità per la sinistra italiana di rappresentare la tradizione riformista, perché dopo la fine del Psi per via giudiziaria ne è sempre rimasta estranea, nonostante una lunga serie di tentativi esperiti dal punto di vista semantico (Pds, Ds, Pd, Ulivo, Unione) per dare un senso alla fantomatica “Cosa” dalemiana. La stessa spinta riformista della Terza Via blairiana, solennemente celebrata a Firenze nel 2001 con il gotha della sinistra mondiale si rivelò una bolla politica senz’anima. Non a caso il Pd oggi, ma prima ancora il Pds e i Ds, sono sempre andati alla ricerca di un Papa straniero, di un referente esterno che potesse compensare la mancanza di una precisa identità politica. In definitiva, quella italiana è una sinistra passata da una palude all’altra nell’impossibilità di declinare in un riformismo autentico il patto tra postcomunisti e postdemocristiani. E chi ha tentato di rompere gli schemi coniugando una leadership forte a una direzione di marcia riformista, ha sempre avuto vita dura, come dimostrano la vocazione maggioritaria di Veltroni e il renzismo, una parentesi coraggiosa ma vissuta come un’eresia e avversata da un fuoco amico che alla fine ha avuto la meglio.

(da www.ildifforme.it - 5 maggio 2023)

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina