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Contro il massimalismo - La mutazione del Partito democratico e la sfida dell'ex Terzo Polo

 

di Enrico Borghi, senatore di Italia Viva

 

Il senatore Enrico Borghi spiega a Linkiesta le ragioni del suo passaggio dal Pd a Italia Viva e traccia il possibile percorso per i riformisti italiani

 

Debbo alla sollecitazione di molti amici (primo tra tutti, un maestro come Guido Bodrato che mi ha chiesto pubblicamente di argomentare più a fondo la scelta) un approfondimento circa la decisione di lasciare il Partito Democratico e di aderire a Italia Viva, con il relativo passaggio in sede parlamentare. È una scelta che discende da una constatazione e da un'analisi al tempo stesso. La prima è la constatazione che l'elezione di Elly Schlein alla guida del Pd, e le scelte successivamente compiute, rappresentano la mutazione genetica di quel partito da formazione di centrosinistra riformista a partito di sinistra massimalista. La seconda è la valutazione che nello scenario politico odierno esista uno spazio intermedio tra la destra nazionalista e la sinistra identitaria, in grado di dare una casa a un elettorato riformista e moderato oggi spaesato.

 

La mutazione del Pd

 

Proverei ad argomentare meglio la constatazione sulla mutazione del Pd. In quattro interviste distinte (a L'Espresso, Repubblica, Riformista, Affari Italiani) ho posto alcuni temi non proprio banali. Su alcuni (sicurezza e difesa, ruolo dei cattolici democratici, esigenza di una sintesi interna tra culture) non ho ricevuto alcuna risposta. In politica, peraltro, i silenzi contano tanto e più delle parole pronunciate. E danno una eloquenza di ciò che si vuole essere, e fare.

Su un altro, delicatissimo e dirimente, come quello dell'utero in affitto, la risposta è stata data in una conferenza stampa: la segretaria è favorevole, ma – bontà sua – è disposta a parlarne. Siccome in politica la forma è sempre sostanza, in questo passaggio ci sono gli elementi della mutazione genetica e direi anche antropologica del Partito Democratico. Una “omologazione culturale”, per dirla alla Pasolini, dettata da poteri esterni al Pd, e interpretata come veicolo di una presunta nuova modernità, con l'applauso di chi a parole si vorrebbe paladino dei più deboli e nei fatti conclama una condizione di sfruttamento umano spacciata per affermazione assoluta dei diritti.

La mutazione genetica del Partito Democratico è sotto gli occhi di chi voglia vedere. La spinta fortissima sui diritti individuali e soggettivi, sganciata dalla dimensione dei doveri che essi comportano; l'accento pauperista e in filigrana per taluni anticapitalista nella critica al sistema in cui viviamo, che con i suoi limiti è l'unico al mondo a garantire libertà e democrazia; più in generale, davanti al passaggio d'epoca e alle grandi rotture storiche che viviamo, la decisione di giocare di rimessa dentro una comoda retorica. Ma alla realtà non si sfugge: nel triangolo strategico energia-moneta-tecnologia vogliamo stare con l'Occidente o con le autocrazie? Possiamo anche fare appello al disarmo facile, ma con il disarmo arriva la sottomissione. È quello che vogliamo?

La clamorosa contraddizione emersa in seno al Pd domenica 30 aprile tra la vicepresidente del Parlamento Europeo, Pina Picierno, (che sostiene l'idea dell'adesione alle proposte in sede NATO in materia di spese militari) e uno degli alfieri del “nuovo Pd”, l'onorevole Arturo Scotto, che rilancia lo stop all'invio delle armi in Ucraina e addirittura nega la legittimità della ricostituzione territoriale dell'Ucraina legittimando nei fatti l'invasione russa in Crimea del 2014, è la conferma di una dicotomia tra riformismo e massimalismo che sui temi di fondo sta portando i nodi al pettine. Ma ci sono altre domande inevase: l'orizzonte di vita che vogliamo costruire per l'Italia è basato sull'idea di uno Stato-mamma che con l'assistenza e il debito pubblico narcotizza la società, oppure ci poniamo il tema di come coniugare crescita, efficienza e giustizia sociale?

E davanti al rischio concreto della trasformazione della democrazia in infocrazia, e della persona trasformata in oggetto di consumo (altra faccia della medaglia dell'utero in affitto, altra dimostrazione del fatto che non si coglie più il valore antropologico della persona), vogliamo stare davvero dalla parte dei più deboli o assecondiamo una tendenza che in nome dei diritti individuali assoluti spoglia l'individuo e lo rende privo di libertà?

E nell' irrisolto passaggio tra la stagione novecentesca del “Welfare State” e quella non compiuta della “Welfare Society” difendiamo l'obsolescenza di un modello ancorato allo schema Stato-Mercato e al conflitto capitale-lavoro o sappiamo aprirci alla sussidiarietà e alla comunità che mettano al centro le famiglie come soggetto e non come oggetto della benevolenza pubblica? Per tacere delle proposte – non pervenute – in materia di riforme istituzionali e adeguamento dei sistemi democratici alla modernità. Sono tutti temi centrali: sicurezza, libertà, economia, lavoro, futuro della democrazia sui quali il misto tra afonìa e slogan produce un quadro che conferma il cambiamento strutturale di quel partito.

Vi è poi un ulteriore tema, tutto politico. C'è un pezzo di sinistra in Italia che ritiene sia stata un errore la “contaminazione” con altre culture riformiste.

La Schlein stessa ha detto che il suo partito sarà «di sinistra, ecologista e femminista, e non tutto e il contrario di tutto». Nella Treccani c'è ancora scritto che il Pd è un partito di «centrosinistra riformista», definizione che ora dovrà essere aggiornata.

C'è una sinistra che vede il Pd del Lingotto come un errore, un tradimento, una amalgama non riuscita. E che ora ha finalmente ripreso il controllo del Palazzo d'Inverno, e deve sbarazzarsi degli usurpatori che hanno osato parlare in nome del popolo della sinistra, senza peraltro avere il sangue blu originato della sorgente di Livorno. Bisogna prenderne atto. E quindi augurare a Elly Schlein di dare una prospettiva a questa dimensione politica, che in modo autonomo mai ha avuto la maggioranza del paese né mai l'avrà, ma che almeno possa puntare a ridimensionare sul piano elettorale il Movimento 5 Stelle. Ma anche, a questo punto, cercare un approdo dove la prospettiva valoriale riformista, europeista, solidale e innovativa possa trovare la sua traduzione sul piano della politica.

 

Il Terzo Polo: partire dal pensiero

 

E qui veniamo al “Terzo Polo”. Proviamo a mettere in chiaro anzitutto un aspetto di fondo: senza un punto di riferimento che vada oltre il contingente, recuperando la dimensione storica, è quasi impossibile creare un nuovo soggetto politico. L'itinerario per la creazione di nuovo soggetto politico non può essere meramente organizzativo, ma deve partire dalle idee, dal pensiero, dal progetto di un domani per l'Italia. Bisogna rispondere a una domanda: la ruota della Storia sta girando in quale direzione? In politica senza la motivazione storico-culturale non si fa nulla, perché le cose concrete sono l'attuazione di un'idea. Senza un pensiero, il pragmatismo sconfina nella gestione del potere fine a sé stesso, e provoca la crisi. Va compreso il senso profondo delle cose che accadono, e un partito è il luogo di elaborazione e di indirizzo di esse.

La dinamica politica odierna in Italia è molto chiara: da un lato abbiamo una destra nazionalista, che fatica a farsi conservatrice perché in Europa i partiti conservatori sono storicamente antifascisti e hanno guidato la lotta al nazifascismo (si pensi a Winston Churchill o a Charles De Gaulle) e perché hanno un'idea precisa del mercato e delle libertà economiche, mentre in Italia la destra è corporativa e in alcuni casi autarchica. Dall'altro abbiamo una sinistra che si va profilando come abbiamo detto, in una dimensione irrisolta di rapporto con il populismo di Giuseppe Conte.

Se non si organizza lo spazio politico dell'area moderata, riformista, liberal-democratica e popolare (quando per popolare intendo gli eredi del cattolicesimo democratico), c'è uno sbocco chiaro: la “merkelizzazione” di Giorgia Meloni, avvenuta per innesto sopra gli equivoci di una destra con tratti illiberali e corporativi. Se vogliamo dare una dimensione europea e moderna dell'Italia va riorganizzato tutto il terreno di chi non si sente rispecchiato dentro l'accordo Weber-Meloni. E in questo, piaccia o meno, si pone il tema della “terza forza” tra destra e sinistra.

Paradossalmente, la crisi di queste settimane può essere di crescita, se sgombra il campo dalla tentazione del partito-personale e apre alla dimensione di una risposta collettiva a un bisogno di rappresentanza politica. Una risposta alla quale bisogna lavorare, con umiltà e pazienza, e nella quale chi possiede come me una identità kennedyana e morotea si possa sentire a casa propria, e non ospite scomodo o sopportato.

Mi si chiede cosa avverrà della prospettiva politica. Non bisogna pensare di costruire una maggioranza per vincere, ma indicare una politica sulla quale vincere. È sulla politica che si può giungere alla condivisione di un percorso di costruzione del processo democratico, oggi in crisi in Italia. E sui fondamenti della politica c'è ancora molto da costruire. Alcide De Gasperi sapeva tenere insieme i democristiani che erano cattolici, i socialdemocratici che erano marxisti, i repubblicani che erano massoni e i liberali che erano laicisti e mangiapreti perché erano chiarissime le linee fondamentali su cui costruire una coalizione: politica estera, politica economica, concezione della democrazia e idea dello Stato.

Oggi che abbiamo un populismo che raccoglie firme contro il sostegno all'Ucraina (tacendo sui missili russi che sventrano le abitazioni residenziali che fanno strage di civili ogni giorno), che immagina la perpetuazione dell'equazione debito pubblico=redistribuzione (archiviando i temi della modernizzazione del Paese e del modello produttivo), che non porta un'idea sulla riforma delle istituzioni democratiche dopo averne intaccato a fondo le fondamenta, il tema di una capacità di riflessione politica riformista che sappia evitare questa deriva – in grado peraltro di assicurare a Giorgia Meloni una rendita inusitata e clamorosa – si pone in maniera impellente.

 

Post scriptum

 

Molti amici hanno osservato che per raggiungere tutto ciò si dovrebbe rimanere dentro un grande partito, secondo la teoria del “lievito”.

Mi limito a osservare, al di là della responsabilità individuale che siamo chiamati a compiere davanti ai tornanti della Storia, che è impossibile esercitare il potere come influenza prescindendo dal potere come forza. E siccome le recenti primarie del Pd sono state vissute – e interpretate – da chi le ha vinte come affermazione del principio di maggioranza, e non del principio di sintesi, resta il fatto che chi è minoritario non potrà mai vedersi riconoscere nulla, se non per gentile concessione e comunque dopo un lungo e logorante lavorìo interno tutto all'insegna della riduzione del danno e a rischio di essere additato come colpevole della rottura del totem salvifico dell'unità interna. Come già accaduto nel recente passato, per nascondere i propri limiti di leadership.

Penso che ci debba essere qualcosa di meglio, e di più, rispetto a ciò. E che valga la pena spendersi per costruirlo.

 

(da www.linchiesta.it – 2 maggio 2023)

 

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