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Lo Stato che non premia il merito

 

diSabino Cassese

 

Si pensa a nuove assunzioni invece di retribuire meglio quelli che ci sono, anche per migliorare il servizio.

Lo Stato che non premia il merito.

 

Autorevoli esponenti di governo continuano ad annunciare cospicue assunzioni nel settore pubblico. Già altre ne sono state disposte con il piano di ripresa. Si aggiungono le immissioni in ruolo dalle graduatorie provinciali degli insegnanti di sostegno e la stabilizzazione dei precari con 36 mesi di servizio, anche non continuativo, nonché dei precari degli enti locali. Il Dipartimento della funzione pubblica è al lavoro per fare una ricognizione del personale da stabilizzare e un fondo sarebbe stato costituito al ministero dell’Economia e delle finanze per coprire parte dei costi di queste assunzioni. Poi, ci si può attendere che, nel 2026, si dovranno stabilizzare le persone assunte a tempo determinato dalle amministrazioni e dagli uffici giudiziari per il piano di ripresa. Infine, un decreto legge approvato dal governo il 6 aprile scorso ha dettato «disposizioni urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle amministrazioni pubbliche», disponendo cospicui aumenti delle dotazioni organiche. Solo nel 2023 sono programmate 170 mila assunzioni.

 

È questo il modo per rafforzare la capacità amministrativa del settore pubblico?

Sgombriamo il campo dall’illusione che le assunzioni vogliano dire più voti. Coloro che nutrono questa speranza saranno presto disillusi. Si tratta di un pessimo calcolo. Si creerà un altro esercito di scontenti a causa delle condizioni di lavoro negli uffici pubblici, che, per essere generosi, possono essere definite subottimali.

L’argomento usato da chi sostiene la necessità di assumere altro personale pubblico è quello del blocco del «turn-over» durato almeno un decennio. Ma questo non tiene conto dello Stato-arcipelago, di quanti nuovi organismi esterni alla pubblica amministrazione si sono aggiunti in questi anni, autorità, agenzie, istituti ausiliari, che fanno parte del settore pubblico perché operano con risorse pubbliche. Se la Ragioneria generale dello Stato curasse le statistiche del settore pubblico, dovrebbe calcolare anche il personale addetto alle funzioni che sono state esternalizzate.

Bisognerebbe, invece, cogliere la duplice occasione di un mercato del lavoro con minori tensioni e della disponibilità di risorse che derivano dal piano di ripresa e dalla denatalità, che diminuisce la richiesta di alcuni servizi pubblici, in particolare di quello scolastico, per una cura dimagrante che serva ad aumentare la produttività, ma specialmente le retribuzioni del pubblico impiego.

I dati Istat al febbraio scorso mostrano che diminuiscono i disoccupati, sono stabili gli occupati e gli inattivi, si riduce la quantità di persone in cerca di lavoro. D’altro lato, il numero dei concorrenti nei concorsi pubblici decresce, mentre aumentano le rinunce, cioè i vincitori che non accettano la nomina. Intanto, nella filiera turistica e nel commercio si registra una grossa carenza di personale, un ministro dichiara che potrebbe esservi un milione di posti che non riusciamo a coprire, e perde quota il miraggio del «posto fisso».

Le circostanze, quindi, sono favorevoli per cominciare ad uscire dal circolo vizioso del pubblico impiego, dove le assunzioni sono per lo più dettate non dalle esigenze funzionali degli uffici, ma dal bisogno di dare tranquillità al mercato del lavoro o di soddisfare il clientelismo politico, riproducendo così il modello «molti e malpagati», a cui Francesco Saverio Nitti aveva contrapposto quello «pochi e ben pagati».

Si tratta di «girare» i «risparmi» alle retribuzioni degli attuali occupati, per rendere attrattivo il pubblico impiego e migliorarne la qualità. I nostri giovani vanno all’estero perché viene loro riconosciuto il merito, vengono assicurate retribuzioni migliori e prospettive di carriera, possibilità di formazione sul posto di lavoro, tutto quello che non si fa in Italia.

Per la scuola, un’idea come quella qui esposta era già stata indicata nel libro di Andrea Gavosto su «La scuola bloccata», pubblicato da Laterza lo scorso anno. Gavosto osservava che «nei prossimi anni la riduzione degli studenti potrebbe essere… accompagnata da un calo più che proporzionale degli insegnanti, favorito dall’età media elevata e dal flusso di pensionamenti senza intaccare eccessivamente il livello di apprendimenti. Si può stimare che il risparmio in stipendi dei docenti sarebbe di oltre 2 miliardi di euro all’anno». Con questi risparmi si potrebbe accrescere la qualità dell’insegnamento. Basterebbe «girare» questi «risparmi» agli stessi insegnanti oggi in attività e alle loro carriere.

La diminuzione degli utenti di alcuni servizi, in primo luogo la scuola, dovuta al calo demografico, i progressi della digitalizzazione, a cui tanto e tanto bene ha contribuito il ministro Vittorio Colao, uniti alle minori pressioni del mercato del lavoro, in particolare di quello meridionale, offrono al governo la possibilità di interrompere ora il circolo vizioso classico del pubblico impiego italiano, che è una delle cause della tanto lamentata inefficienza della burocrazia italiana e dei ritardi che si registrano nella attuazione del piano di ripresa, dovuti al fatto che i livelli retributivi e le condizioni generali del lavoro non attirano ingegneri, scienziati, matematici e tecnici, che, nelle varie professioni loro aperte, trovano facilmente lavoro nel settore privato.

La scarsa efficienza del settore pubblico non dipende da carenza di personale, ma da molte altre cause, i troppi interessi pubblici in conflitto, un eccesso di controlli inutili, la struttura labirintica delle procedure, il personale non selezionato o selezionato male, e comunque non motivato, l’assenza di tecnici, le spesso improvvide iniziative delle procure, e persino l’«overstaffing» di alcune strutture, per cui non serve aumentare il numero degli addetti, che anzi complica la gestione pubblica, bisogna retribuire meglio quelli che ci sono e dare loro incentivi che premino il merito.

 

(dal Corriere della sera – 21 aprile 2023)

 

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