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Solo un vero partito liberal democratico può contrastare le ambizioni conservatrici di Meloni

 

di Giuseppe Benedetto (1)

 

Alcune considerazioni sull'evoluzione di Giorgia Meloni nello scenario politico italiano e internazionale. Appare di lampante evidenza la strategia della presidente che sta sempre più attorniandosi nella sua esperienza a Palazzo Chigi da personaggi eterodossi, non provenienti dalla sua storia e dalla storia del suo partito.

Ormai i casi sono così numerosi da non poter essere ricondotti a coincidenze. Per lo più coloro che sono chiamati a collaborare con lei provengono da un'area che potremmo definire moderata-liberale.

Il più noto è il ministro di punta del suo governo, Carlo Nordio, che è anche il più lontano da lei per cultura politica di provenienza. Ma tanti altri non riconducibili direttamente alla destra, soprattutto tra i collaboratori più stretti, sono nel frattempo approdati alla sua corte. Non può essere una scelta casuale.

Il suo partito, invece, resta al momento del tutto impermeabile a questa evoluzione. Potrebbe essere una strategia o, più semplicemente, la circostanza che un premier che sia anche leader di partito, naturalmente riconduce la sua leadership e anche le sue politiche al ruolo istituzionale, facendo passare in secondo piano (nel caso di Meloni oscurando del tutto) le attività proprie del partito di cui è incontestata leader.

È di tutta evidenza che Giorgia Meloni dà un orizzonte di legislatura alla sua esperienza e fa bene a farlo. Anche questa fortunata condizione la pone nell'ottica di “accantonare” almeno per i prossimi anni il partito.

Analizziamo gli obiettivi e gli eventuali ostacoli nel raggiungerli. A me pare che il presidente del Consiglio (come ama essere chiamata) si sia posto un obiettivo ambiziosissimo: dar vita in Italia a un moderno partito conservatore, che si ispiri a un'esperienza precisa, il conservatorismo inglese.

Tutto si muove in tal senso. A cominciare dalla collocazione internazionale e dalle conseguenti posizioni senza oscillazioni sulla guerra, dalla continuità con l'esperienza di Mario Draghi in tanti settori della vita economica e sociale, dalle nuove – per lei – posizioni garantiste sul delicato tema della Giustizia. Queste ultime, per la verità, sinora solo declamate.

Anche il suo attivismo sul terreno delle istituzioni dell'Unione europea e i suoi rapporti in Europa lasciano prefigurare l'intenzione di porsi alla testa dei vari conservatorismi europei, piuttosto che lasciarsi trascinare da essi. Ricordiamo che lei è già presidente del gruppo parlamentare europeo Ecr, quello, appunto, dei conservatori europei. Insomma, tutto torna.

Ma qui cominciano i problemi per lei e le riflessioni per chi non vuole lasciarsi coinvolgere in tale pur originale progetto.

Innanzi tutto il suo partito, ancor più della sua storia personale. Quest'ultima può ben seguire un'evoluzione, mentre il partito a me pare la sua principale palla al piede. Non credo che possa facilmente farne a meno: ricordiamo che la Meloni proviene dalla storia antica del suo partito, prima ancora che da una sua storia personale. Non sarà facile riformarlo e tanto meno staccarsi da esso. Come vorrà gestire la rupture, inevitabile anche sul piano dei rapporti personali, è tutto da vedere. Soprattutto è tutta da farsi e sarà tutt'altro che semplice.

La lezione di Winston Churchill, e i suoi passaggi dai liberali ai conservatori, a me pare troppo ambiziosa e mal si attaglia alla situazione data.

Il quadro dei partiti oggi in campo potrà favorirla. Non ha competitor nel suo campo. Non lo è Matteo Salvini, che con il suo partito viene da tutt'altra storia. Non lo è Forza Italia, il cui declino potrà anzi favorire il suo progetto. Non è un problema l'opposizione, che fa di tutto per favorirla. E continuerà a farlo. La coazione a ripetere gli errori è una maledizione del Partito democratico di cui bisognerà finalmente prendere atto.

Non la favorisce invece la deep culture di questo Paese. Quanto di più lontano dal conservatorismo reaganiano o tatcheriano. Tutta rivolta alle rendite di posizione, alla bonusmania e al “manettarismo” militante a cui la presidente del Consiglio ha già dovuto inchinarsi, rallentando non poco e rischiando di compromettere il suo pur ambizioso progetto. Dai balneari, ai tassisti, da ITA alle pulsioni securitarie del 41-bis, tanti sono gli indicatori che segnano inesorabilmente le difficoltà del percorso.

Vi è infine quello che potrebbe essere l'avversario più insidioso sulla sua strada: la nascita di un partito autenticamente liberale che su alcuni temi possa farle concorrenza, essendo tale forza più credibile per storia e per cultura – e su altri temi, penso ai diritti civili, a politiche non ideologiche sull'immigrazione, alle iniziative per un Europa federale e tanto altro ancora – potrebbe e dovrebbe essere più attrattiva dei settori più vivaci della nostra società.

Certo se questo nascente partito, che non può identificarsi sic et simpliciter nel cosiddetto Terzo Polo come è ora configurato, ma che da quella esperienza può trarre spunti importanti (anche per evitare gli errori commessi), continuerà a guardare al Partito democratico come interlocutore preferenziale o addirittura obbligato, allora sgombrerà il campo alla Meloni che potrà esondare anche in un campo che non le è proprio.

Occorre farla finita con pseudo complessi di superiorità, frutto di una minorità politica e spesso anche personale. La Meloni si sfida senza rancori, con rispetto e senza complessi. Insomma, solo un vero Partito liberaldemocratico, ancorato alla famiglia liberale europea, potrà contrastare e competere con un moderno partito conservatore. Liberal-socialisti, liberal-progressisti, liberal di ogni ordine e specie, lascerebbero campo libero alla Meloni.

 

Certo le necessarie riforme istituzionali e una indilazionabile riforma elettorale saranno necessarie per lo sviluppo del progetto. Ma questa è un'altra storia.

 

Nota  

 

1) L'autore, Giuseppe Benedetto, è presidente della Fondazione Luigi Einaudi.

 

(da www.linchiesta.it - 22 febbraio 2023)

 

 

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