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Non decidiamo da soli: cosa vale la politica estera

 

di Angelo Panebianco

 

L'Italia sta scoprendo adesso che le dinamiche internazionali possono essere fonte di pericoli mortali, possono minacciare la sicurezza e l'integrità del

nostro Paese

 

Porsi domande bizzarre può a volte aiutare a capire qualcosa del complicato mondo che ci circonda. La domanda bizzarra è questa: come mai la guerra che si combatte in Europa non ha già scompaginato alleanze e coalizioni in Italia? Come mai putiniani e atlantici si dividono fra i due schieramenti (di governo e di opposizione)? Come mai non hanno dato vita ad alleanze — certamente eterogenee quanto a scelte di politica interna — ma omogenee sul terreno più importante?

Perché non sono ancora sorte coalizioni tenute insieme da un fondamentale accordo sulla questione della guerra?

Un'antica e gloriosa dottrina sostiene il «primato della politica estera», ossia l'idea che le posizioni di politica interna e le alleanze fra i partiti che operano entro i diversi Paesi siano imposte dalla politica estera, dipendano dalle scelte che si fanno sulle questioni internazionali più importanti.

Come la guerra per l'appunto. Ciò, a sua volta, sarebbe il frutto dei vincoli stringenti imposti dalle dinamiche, dagli eventi e dalle alleanze internazionali.

Tenuto conto che l'esito della guerra che si svolge nel cuore dell'Europa deciderà degli equilibri nel Vecchio Continente, e dunque anche del destino dell'Italia, chi applicasse meccanicamente la dottrina del «primato della politica estera» dovrebbe immaginare la formazione di ben altri schieramenti al posto di quelli esistenti.

Da una parte, Berlusconi, Salvini, Conte più quel settore del Pd, non si sa quanto consistente, che ha «subito» la scelta atlantica di Enrico Letta e non vede l'ora di sbarazzarsene. Dall'altro lato, Meloni, Calenda, Renzi, più quella parte del Pd fermamente convinta della necessità del sostegno all'Ucraina.

Con il mondo cattolico diviso, un po' di qua e un po' di là.

La suddetta domanda non apparirebbe bizzarra (come oggi invece è) se vivessimo ancora in età bipolare come al tempo della Guerra fredda. Allora c'erano i blocchi contrapposti, le alleanze internazionali in Europa erano rigide e stringenti. Non era possibile in Italia avere al governo forze politiche nemiche del blocco internazionale di appartenenza. Da qui la conventio ad excludendum , l'impossibilità per il partito comunista (legato al blocco nemico di quello occidentale) di essere preso in considerazione dagli altri partiti come possibile partner di governo. Da qui anche il fatto che una forza di sinistra (il partito socialista) potè sfuggire al cappio della conventio ad excludendum solo rompendo l'alleanza con i comunisti. In età bipolare il primato della politica estera si manifestava in tutta la sua potenza.

Oggi però viviamo in un ambiente internazionale assai meno rigido, molto più fluido. I condizionamenti esterni ci sono ancora ma sono multipli, esercitati contemporaneamente da una pluralità di centri di potere internazionale: i confini detti «nazionali» sono porosi, facilmente attraversabili da forze esterne anche fra loro in competizione e in conflitto.

Il partito atlantico, pro-Zelensky e il partito putiniano, anti-Zelensky, non dividono solo la politica. Hanno ramificazioni ovunque. Nel mondo delle imprese come in quello della cultura, dello spettacolo e dell'informazione. Un effetto evidente della «porosità» dei confini, del fatto che una società aperta è esposta a ogni genere di influenza. Si aggiunga che, rispetto al mondo di ieri, è cresciuta assai, come effetto del successo del processo di integrazione europea, l'interdipendenza fra i Paesi dell'Unione e, con essa, sono aumentate le forze transnazionali che li attraversano e li legano. A differenza di oggi un tempo l'Europa non era fonte di divisione fra i partiti: anche i comunisti, da un certo momento in avanti diventarono favorevoli alla (allora) Comunità europea. È un'altra condizione che rende attualmente più difficile la formazione di coalizioni coese sulla collocazione internazionale dell'Italia.

Il problema si presenta ovunque, o quasi ovunque in Occidente ma in Italia con particolare forza e intensità. Perché disponiamo di debolissimi anticorpi.

In un Paese in cui la forza preponderante del «patriottismo di fazione», a destra come a sinistra, rende difficilissima la convergenza intorno a una idea condivisa di interesse nazionale (e nei momenti in cui si realizza, tale convergenza è sempre comunque precaria), è difficile che si possa fare, se non per brevi periodi, fronte comune contro le sfide esterne. Come proprio le divisioni sulla guerra entro gli schieramenti — e soprattutto in quello che più conta, lo schieramento di governo — dimostrano ampiamente.

Si aggiunga il fatto che solo ora l'Italia si sta dolorosamente svegliando. Solo ora sta scoprendo, dopo decenni di disinteresse, che la politica internazionale può essere fonte di pericoli mortali, può minacciare la sicurezza e l'integrità del nostro Paese. All'epoca di Trump mentre il presidente francese Macron parlava della «morte cerebrale» della Nato e la classe dirigente tedesca era terrorizzata all'idea di poter perdere la copertura atlantica, da noi ci dividevamo, in omaggio al patriottismo di fazione, fra sovranisti e antisovranisti, amici e nemici di Trump. Senza alcun riguardo per il vero problema: cosa ne sarebbe stato della nostra sicurezza? La stessa ragione per la quale abbiamo assistito, senza che l'opinione pubblica battesse ciglio, all'occupazione della Libia da parte di turchi e russi e alla loro presenza minacciosa nel Mediterraneo, nel cortile di casa nostra.

Anche se non hanno più gli effetti meccanici, immediati, che avevano un tempo sulle alleanze interne, gli equilibri internazionali continuano e continueranno a condizionare la vita dei Paesi, compreso il nostro. Verrebbe da dire: il nostro soprattutto. Guerra a parte, la tentazione di sfruttare le nostre divisioni per i loro scopi può venire a molti, ivi compresi turchi, iraniani e altri (non dice forse qualcosa al riguardo la vicenda del Qatar?).

Restiamo però sulla guerra in Ucraina. Immaginiamo che si risolva con una sconfitta dell'invasore. Una conseguenza, qui da noi, sarebbe l'indebolimento del partito putiniano, la sua crescente irrilevanza politica. Se invece le cose andassero diversamente, se Putin alla fine vincesse, il partito putiniano italiano si rafforzerebbe e questo avrebbe, prima o poi, effetti sugli equilibri politici interni. E renderebbe assai problematica la collocazione internazionale dell'Italia.

Pur con i suoi limiti, la dottrina del «primato della politica estera» ha un pregio: ci ricorda che non siamo i soli a decidere del nostro destino.

 

(da www.corriere.it - 15 febbraio 2023)

 

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