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Accelerare, subito - È ora di costruire il campo largo liberal democratico, con un nome e un manifesto

di Beppe Facchetti

Bisogna accelerare, non c’è dubbio, e soprattutto non sbagliare direzione e dimensione dell’impegno. La zeppa anti-bipopulista, a cura dell’accoppiata Azione-Italia Viva, va piazzata con efficacia e idee chiare al più presto, perché gli allori del 25 settembre sono apparsi spietatamente appassiti alla prova di febbraio.
Urge intervento di rilancio, perché la politica veloce di oggi non aspetta certo le elezioni europee del lontanissimo 2024 per decretare la sorte dell’unico fatto nuovo del quadro politico. E comunque alle europee bisogna arrivarci vivi.

E allora, forza (Carlo Calenda ha avuto i merito di dirlo a urne appena chiuse): accelerare la fusione dei partiti fondatori e credere nel “campo largo” liberaldemocratico, non come orpello, ma come elemento che fa la differenza, dando completezza programmatica a quello che molti giudicano ancora solo come un menage tra due leader sempre descritti – finora a torto – sull’orlo di una crisi coniugale. E i contenuti li deve fornire un sano programma su temi oggi trascurati dai “vincitori” delle elezioni senza elettori: mercato, concorrenza (vedi balneari), Europa, produttività, non assistenzialismo.

Evitare, please, di contemplare l’ombelico. L’elettore ha sempre ragione, spiace farlo notare a Carlo Calenda, che non è un osservatore delle contraddizioni italiane (vere, numerose e talora clamorose, bisogna però farci i conti), ma – rovesciando la prospettiva – è lui il soggetto sotto osservazione.

E, diciamolo francamente, i risultati delle urne sono avari e impietosi, ma era sbagliato non interpretare con preoccupazione già da prima i sondaggi piatti, che non hanno mai segnato un progresso vero. Tutto staticamente fermo a quel risultato delle politiche, che già allora avrebbe dovuto essere migliore, perché penalizzato dal bacio a Letta, il giorno prima della rottura.

Ora, o mai più, va accelerato il rilancio, e non condividiamo per questo la filosofia di uno pur sempre lucido come Luigi Marattin che assegna al Terzo Polo una tempistica lenta, di lungo periodo.

Le prospettive, quelle sì, sono di lungo periodo, perché far maturare nel Paese un’alternativa liberale e riformista non è cosa di un mattino. Ma le premesse vanno poste oggi, la luna di miele terzopolista è finita.

Le operazioni da mettere in campo, sono tante, e occorre partire da quelle già impostate: la fusione vera tra i due partiti fondatori e la strutturazione anche territoriale della terza gamba liberale.

Nervi saldi, umiltà (quanta ce ne vuole!) e messaggi chiari devono venire da Carlo Calenda e Matteo Renzi, che per una buona causa si sono fatti tanti nemici – sia a destra che a sinistra – ora resi più agguerriti dal sospiro di sollievo del disastro evitato, e che continuano ad avere nei media l’attenzione più al pettegolezzo caratteriale che al merito della linea politica.

Ma molto può e deve fare la terza gamba, che però è in ritardo, non sembri paradossale per un movimento nato esattamente un mese fa.

Lì c’è una potenzialità tutta da esprimere, che innanzitutto apre prospettive sul programma e sui contenuti e può andare senza condizionamenti a caccia di un consenso che per natura loro non possono valorizzare un ex segretario e un ex ministro del Partito democratico.

Il Terzo Polo ha il dovere di allargarsi, se non vuole essere terreno di addestramento solo per ex, e l’espansione non può che avvenire nelle nuove generazioni che già hanno votato e probabilmente rivotato questa soluzione alternativa alle elezioni del 2022 e 2023.

Ma i LibDem devono aprirsi, radicarsi, organizzarsi. Per ora non lo stanno facendo, attardandosi attorno a uno Statuto di trentacinque pagine per un movimento dichiaratamente nato per durare pochi mesi, ora pochissimi dopo il 12 febbraio.

Il merito dei fondatori che hanno avuto l’intuizione e hanno rapidamente costruito il modellino, ma che sono dei solisti, espressione di centri culturali senza dimensione partitica, con il solo Sandro Gozi impegnato direttamente in politica, ma a Parigi e Strasburgo, deve ora sostanziarsi in un passo indietro e una più generosa distribuzione di compiti e di ruoli tipici di un partito nascente, intendendo per tale non quello dell’associazione che per ora li raccoglie, ma quello del nuovo da mandare al più presto in orbita.

Sul territorio qualcosa si sta facendo grazie al lavoro che sta coordinando Alessandro De Nicola, e i LibDem stanno infatti nominando in questi giorni i responsabili regionali, reclutati tra ex PRI e ex PLI, questi ultimi oggi largamente rappresentati da Liberal Forum, ma certo non basta. Anche in questo caso è la parola ex che non funziona. Meglio neo.

Ancora vanno comunque risolti alcuni nodi fondamentali, addirittura esistenziali, a cominciare dal nome del partito, che sarebbe naturale – ma ci vuole coraggio – intitolare alla democrazia liberale, visto che è oggi più che mai chiara nel mondo la contrapposizione tra autocrazie responsabili di pandemie, guerre e repressioni (Cina, Russia, Iran, tanto per essere chiari) e liberaldemocrazie appunto che approntano vaccini, difendono Paesi aggrediti, danno speranza a minoranze intense antiteocrazia.

Ci vuole un nome, non di fantasia, per favore: dei fiori la stagione è finita da un pezzo. Di Terzo Polo non se ne può più. Probabilmente è Matteo Renzi quello che deve fare lo sforzo maggiore, mentre forse Carlo Calenda farà più in fretta ad abbandonare una litania un po’ troppo lunga: liberale, riformista, repubblicana, popolare. Scelga un nome solo. Ma, dopo la nascita di un bambino, all’anagrafe bisogna andarci in pochi giorni.

Più facile forse arrivarci dopo aver scritto – altra urgenza – un “Manifesto” programmatico, perché i contenuti sono facili da elencare e vanno solo scritti in una lingua comprensibile, senza troppi «ma anche…».

E, molto presto – prima, non dopo l’estate – convocare su tutto questo un Congresso fondativo, senza correnti preordinate e cammellate, ma espressione visibile, plastica, di uno stare insieme che funzioni ben prima delle elezioni europee.

Resta ovviamente, in questa Italia malata di maldigerito maggioritario, il problema non banale del leader: Matteo, Carlo o Mister (o Miss) X?

Chiunque lavori per rinnovare e rilanciare l’ex Terzo Polo sappia che su una questione del genere può morire anche il miglior progetto. I Romani eleggevano due Consoli, ma qui non sembra il caso, anche se al momento si fa esattamente così.

(da www.linchiesta.it - 15 febbraio 2023)

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