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Politica all’italiana - Gassman, Tognazzi e il declino di un partito democratico ridotto ad amici miei

di Mario Lavia

Se la più forte polemica a sinistra è tra Alessandro Gassman e Ricky Tognazzi il momento è grave ma non serio, verrebbe da dire. E non certo perché quelle dei due attori non siano voci degne di attenzione ma per il pomo della discordia che li divide: nientemeno lo strano caso di Dino Giarrusso entrato/non entrato nel Partito democratico. A causa dei loro cognomi non si può fare a meno di pensare che sia una scena de I mostri. Invece è realtà: Gassmann ha annunciato che non voterà mai più Pd, Tognazzi ha replicato dicendo che l’ex Iena è una bravissima persona.

 

Ora, non si pretendono polemiche come quella tra Togliatti e Vittorini e nessuno si era illuso che il congresso dovesse ospitare scontri dialettici sui rapporti di produzione o sulla conquista delle casematte del potere però a tutto c’è un limite: e con lo scivolone mediatico e politico targato Giarrusso causato non si è capito bene da chi questo limite è stato abbondantemente superato.

 

Dopodiché, archiviato questo episodio incommentabile, non è che dal fronte delle primarie stiano giungendo altre notizie clamorose. I big si fanno i loro conti: mi conviene di più appoggiare lui o appoggiare lei? In assenza di una vera dialettica sui contenuti, di un confronto sulle idee, questa è l’unica bussola che sta guidando i comportamenti dei dirigenti, e non solo a livello centrale, dando tutti per scontato che il problema non è capire chi vince ma di quanto vince, e quindi quanti posti spetteranno ai perdenti, che poi dovranno sbranarsi tra di loro per spartirseli tra orlandiani, zingarettiani, franceschiniani, schleiniani “veri”.

 

Dall’altra parte, Stefano Bonaccini avrà il problema di garantire un adeguato peso più che ai singoli personaggi al vero grande correntone di questo congresso, i sindaci, vere bocche da fuoco del campo bonacciniano, e i governatori tipo Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, mica dei pesi leggeri. Non se ne esce, da queste alchimie tutte interne: d’altronde nessuno è arrivato con la mitica “Costituente” (a parte i bersaniani, Laura Boldrini, e, se non abbiamo capito male, anche un’intellettuale non precisamente amica del Pd come Nadia Urbinati).

 

Quante persone in carne e ossa in questa situazione esclusivamente dominata dalla conta tra correnti vecchie e nuove si metterà in fila ai gazebo? C’è da essere preoccupati, al Nazareno. Poi certo se la Cgil ci si mette di buzzo buono potrebbe portare un po’ di gente, soprattutto lo Spi, il sindacato dei pensionati guidato da Ivan Pedretti che pare parteggi per Elly perché Bonaccini con lui non si è fatto sentire.

 

Se fosse scaltro, il Pd potrebbe fare del 26 febbraio, data delle primarie, una giornata di mobilitazione contro un governo che, come si è visto ieri con l’incredibile intemerata di Giovanni Donzelli, pare scegliere la strada della radicalizzazione dello scontro politico. Ma in ogni caso domina il grande vuoto di idee e da questo punto di vista il congresso – come lo chiamavano? Della rigenerazione? – è già un’occasione mancata malgrado l’annunciato vento di novità promesso da una Elly Schlein più timida delle previsioni e che anzi rischia di confermare nel più clamoroso dei modi che il Pd, come ha crudelmente detto Giuliano Amato, non è più un partito ma «una dirigenza», una specie di sindacato di un certo ceto politico che lavora per la sua sopravvivenza.

 

Ancora più a sinistra (escludendo da questo discorso il post-Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte totalmente fermo in attesa di fregarsi le spoglie del Pd) forse sarebbe possibile una stagione di movimento all’incrocio tra pacifismo-neutralismo anti-Zelensky (penosa la polemica su Sanremo) e mobilitazione estremista sull’onda del caso Cospito, e non è facile capire le ragioni di un perdurante riflusso giovanile a cospetto di un evidente malessere sociale ed esistenziale di una parte delle nuove generazioni: probabilmente er Movimento non c’è perché non ci sono più le organizzazioni e i leader di una volta, e si sceglie l’estraneità, l’indifferenza. A proposito, vedremo alle Regionali del 12 febbraio (altre batoste per le opposizioni) quanto andrà male l’affluenza, soprattutto dei giovani.

E ancora, sul lato opposto, c’è da osservare che il riformismo interno ed esterno al Pd stenta molto a riprendere la parola, come se avesse da farsi perdonare da qualcuno la stagione renziana e restasse a metà strada tra la battaglia interna al partito e la costruzione di qualcosa che non c’è ancora; mentre ancora più in là l’area Terzo Polo/+Europa secondo Swg arriva all’11,4 per cento, solo tre punti sotto il Pd, dato al 14,2: qualcosa vorrà dire anche se non è chiarissimo come si intende dare uno sbocco pratico a questi orientamenti.

 

È chiaro che siamo in una fase molto aperta e ricca di incognite: il congresso del Pd, i passi avanti che dovrà fare la federazione Azione-Italia viva se vorrà arrivare pronta come un vero partito nuovo alle elezioni europee del 2024, il traguardo con cui tutti dovranno fare i conti, a partire ovviamente dal governo che già vede un pochino scolorare la sua luna di miele a causa del fatto, come dice Azione, che non sta facendo niente.

Il pericolo per il riformismo italiano è però quello dell’attendismo, di perdere un anno a guardarsi l’ombelico, di trascorrere tutto il 2023 a ciurlare nel manico aspettando Godot. Che, come si sa, non arriva mai.

(da www.linchiesta.it - 1 febbraio 2023)

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