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LA DESTRA, LA SINISTRA E DANTE, CHE APPARTIENE A UN’ALTRA PARTE

Di Sergio Belardinelli

La tradizione, un concetto sempre più complesso e scivoloso. Chiaro, però.

Mentre il ministro Sangiuliano si diletta allegramente su Dante padre della cultura di destra, forse perché erroneamente convinto di irrobustire in questo modo una tradizione e un’identità percepite, altro errore, come insignificanti e vuote, il numero di dicembre della rivista “Il Pensiero storico”, diretta da Danilo Breschi, esce proprio in questi giorni con una sezione monografica dedicata al tema tradizione/tradizioni.
E’ più corretto parlare di tradizione al singolare o al plurale? E se fosse più corretta la seconda ipotesi, quale sarebbe il criterio discriminante: la religione, la nazione, la lingua? Esiste ancora una tradizione europea dopo almeno cinque secoli di contestazione da parte della modernità? E quale effetto ha sulle diverse tradizioni la cosiddetta globalizzazione?

Queste, grosso modo, le domande alle quali sono state chiamate a rispondere una quindicina di personalità di diversa appartenenza culturale: da Carlo Altini a Luigi Cimmino, da Raimondo Cubeddu a Marcello Veneziani, da Alain De Benoist a Serge Latouche, tanto per fare qualche nome.

Il quadro che ne esce è affascinante. In estrema sintesi si potrebbe dire che la tradizione al singolare esiste, ma sempre nelle sue declinazioni plurali, quale “esito inintenzionale del processo storico” (Cubeddu). Con Luigi Cimmino, si potrebbe precisare che “lo sforzo, volenti o nolenti, è sempre quello di trovare il medesimo nella diversità”. Abbiamo dunque a che fare con un concetto, quello di tradizione, fattosi sempre più complesso e scivoloso, certo, ma non per questo indeterminato o indeterminabile. Dante, per intenderci, non appartiene alla tradizione di destra né a quella di sinistra, ma certamente appartiene alla tradizione italiana.

Particolarmente urgente mi sembra la riflessione cui i diversi intervistati sono stati chiamati sulla tradizione europea. Esiste ancora dopo la modernità? La gran maggioranza degli intervistati, pur mettendo in guardia da ingiustificate ipostatizzazioni, tende a pensare che sì, una tradizione europea esista ancora. Certo essa non è più identificabile in toto con la tradizione cristiana, né, come sottolinea Raimondo Cubeddu, con una semplice secolarizzazione del Cristianesimo (la modernità non è soltanto questo), ma certamente esiste. Diversamente non si comprenderebbe nemmeno il fascino che l’Europa, nonostante le molte crisi che l’attanagliano, continua a esercitare nel mondo intero.
Fermo restando che molte sono le fonti alle quali si è abbeverata la tradizione europea: il mondo greco, quello romano, quello cristiano, quello slavo, quello illuminista;
fermo restando altresì che la cosiddetta modernità ha assunto spesso un atteggiamento vandalico nei confronti di alcune di queste tradizioni;
è pur vero che il “fuoco” dell’Europa continua ad ardere. Sfilacciato quanto si vuole, estenuato perfino, ma non spento; anzi, è grazie a questo fuoco che la stessa modernità ha potuto dispiegarsi nei suoi molteplici livelli. E se il suo dispiegamento ha prodotto anche la crisi che vediamo sotto i nostri occhi, dovuta per lo più a un’autocomprensione antireligiosa, soggettivistica, relativistica e narcisistica, è soltanto il fuoco della tradizione europea di cui dicevo sopra che potrebbe conferire alla modernità un’autocomprensione diversa, più solida e più comprensiva.

Detto fuori da ogni metafora, libertà, autonomia, pluralismo, le stesse istituzioni dello stato liberaldemocratico, veri e propri vessilli della modernità, non hanno alcuna speranza di sopravvivere al di fuori o, peggio ancora, contro la particolare tradizione umanistica europea che li ha generati. Una tradizione che è secolare e anche antireligiosa, ma non soltanto antireligiosa, plurale ma non relativistica, incentrata sull’unicità irripetibile di ogni uomo ma non soggettivistica e incurante dei legami con gli altri; soprattutto una tradizione che, per il fatto di essere nata in Europa, non può essere eurocentrica; tanto è vero che potrebbe andare benissimo in crisi nel cuore dell’Europa e rigenerarsi altrove.

Per farla breve, la tradizione europea ha generato una sorta di unicum: un’identità che in senso proprio non è geografica, né etnica, né politica, né linguistica, né religiosa, né culturale, bensì antropologica. Sì, l’Europa è soprattutto un ideale di uomo, un ideale universalistico concreto, non astratto, che, proprio per questo, riesce miracolosamente a valorizzare l’unicità, la libertà e i diritti individuali, nonché il radicamento geografico, religioso, culturale di tutti e di ciascuno. E’ questo ideale di uomo che consente all’Europa di rinascere ogni volta dalle macerie che essa stessa ha generato e genera: il colonialismo, il nazionalismo, il totalitarismo, l’indifferenza o l’ostilità nei confronti dell’altro e si potrebbe continuare. Credo inoltre che sia per questo ideale che nel mondo, specialmente dove la libertà e la dignità degli uomini vengono calpestate, si continua a guardare all’Europa come a una speranza, nonostante le tragedie della sua storia e nonostante la stanchezza che spesso noi europei manifestiamo nei confronti di noi stessi.

(da Il Foglio - 18 gennaio 2023)

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