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Bettini, Orlando e Franceschini contro «gli apologeti dello status quo» e altre assurdità dal congresso Pd

di Francesco Cundari

Sarà che invecchiando si finisce per dire sempre le stesse cose, ricordare sempre gli stessi aneddoti, citare sempre le stesse battute – ma sarà pure che la politica italiana non è che offra gran quantità di nuovi stimoli – fatto sta che era davvero difficile non pensare alla gag di Massimo Troisi sui soldi del Belice guardando il video in cui Elly Schlein, seduta tra Andrea Orlando e Goffredo Bettini, diceva: «Se qualcuno pensa che negli ultimi quindici anni sia andato tutto bene, lo dica. Siamo qui apposta a discutere in questo congresso. Lo dica».

Così due giorni fa scandiva Schlein, rivolgendosi al pubblico, proprio come il Pertini di Troisi, che dal televisore tuonava: «Chi ha preso i soldi del Belice?». Ma forse anche lei, come il presidente di quel vecchio sketch, avrebbe dovuto rivolgersi, semmai, verso chi aveva accanto.

Non che entrambi, Orlando e Bettini, non sostengano la stessa posizione. Anzi, ne sono tra i più convinti portabandiera – assieme a Dario Franceschini, pure lui schierato con Schlein in nome dell’esigenza del più radicale rinnovamento – e lo hanno ribadito anche in quell’occasione, cioè la centesima presentazione del libro di Bettini (rito al quale sembrano essersi sottratti, a oggi, forse solo un paio di segretari di sezione delle più remote comunità altoatesine).

Bettini ha detto di avere sentito nella piattaforma di Schlein «l’urgenza di una risposta che non sia l’apologia dello status quo, mentre dentro il partito questa apologia è presente». Orlando, sulla stessa lunghezza d’onda, ha osservato che i grandi problemi del mondo non possono essere affrontati con un «soluzionismo pragmatico».

Se avete l’impressione di avere già sentito questi argomenti, non vi sbagliate. È esattamente la discussione che si è svolta al congresso precedente, quello del 2019, vinto trionfalmente da Nicola Zingaretti, con una maggioranza del sessantasei per cento, con Orlando come vicesegretario e Bettini come principale consigliere e ispiratore. Quale sarebbe dunque lo status quo di cui qualcun altro – presumibilmente i sostenitori di Stefano Bonaccini – farebbero oggi l’apologia?

Se poi volessimo risalire più indietro nel tempo, non è che il quadro cambierebbe molto. Sulle posizioni di Bettini ai tempi in cui a guidare il Partito democratico e il governo era Matteo Renzi (con il quale nel libro è molto critico, pur riconoscendo di essere stato inizialmente «benevolo», per quanto «con prudenza» e «mantenendo una marcata autonomia») si è già esercitato Mattia Feltri sulla Stampa, ricordando ad esempio quando Bettini prudentemente osservava che «Renzi ha straordinariamente rimesso in moto la politica italiana e ridato una speranza al Paese» (maggio ’14) o quando con cautela segnalava che «la resistenza a Renzi nel Partito democratico è avventurosa e arriva da leader del passato» (aprile ’15). E certo della resistenza non poteva far parte Orlando, che nel 2015 era ministro del governo Renzi.

Ma anche se volessimo risalire ancora più indietro, alla nascita del Partito democratico sotto la guida di Walter Veltroni, certamente il leader che più di ogni altro schierò i democratici su posizioni blairiane e liberal, dovremmo ricordare come Bettini ne fosse il principale ideologo, e Orlando il portavoce del partito.

Se poi volessimo risalire addirittura agli anni Novanta, cioè a prima ancora che il Partito democratico nascesse, dovremmo riconoscere, come due giorni fa ha puntualmente ricordato Luciano Capone sul Foglio, che quel poco o tanto di liberismo introdotto allora in Italia – rigore di bilancio, privatizzazioni, liberalizzazioni, riforma delle pensioni, riforma del mercato del lavoro – è stato opera proprio dei leader del centrosinistra e dei governi dell’Ulivo. Ed è stato parte non secondaria dello sforzo compiuto per partecipare da subito all’unione monetaria, cioè la vera e propria missione – e il principale risultato politico – che il centrosinistra ha sempre rivendicato (senza dimenticare che quando qualcuno provò ad aprire su questo una riflessione critica, peraltro in modo assai meno tranchant, durante la segreteria di Pier Luigi Bersani, fu rapidamente richiamato all’ordine).

Qui sta oggi la contraddizione più clamorosa. Perché da un lato Bettini sostiene che «negli anni Novanta l’Ulivo ha salvato la democrazia e l’Italia», dall’altro che proprio a partire da allora, dopo il crollo del comunismo, l’ideologia neoliberista non avrebbe più trovato argini, nemmeno a sinistra, causando tutte le storture e le diseguaglianze ancora dinanzi a noi.

Non è una contraddizione in cui cada però il solo Bettini. E non è nemmeno, esclusivamente, una questione di nomi e storie personali. Certo, nessuno può sostenere seriamente che negli anni novanta e duemila tanto i governi guidati da Romano Prodi quanto quelli di Massimo D’Alema e Giuliano Amato si contrapponessero alla deriva neoliberista incarnata da Tony Blair e Bill Clinton (semmai tentavano di appropriarsene indebitamente, parlando nei casi più estremi addirittura di «Ulivo mondiale»).

Ma al di là delle vicende e delle incoerenze personali, c’è un problema di sostanza. E questo sì meriterebbe una discussione seria, in cui poter confrontare tesi chiare, ragionevolmente argomentate e non manifestamente auto-contraddittorie.

Insomma, se si vuole rinnegare l’intera storia del centrosinistra per sposare – sull’economia, sull’Europa, sull’euro – la lettura rosso-bruna (o giallo-verde) di Claudio Borghi, Alberto Bagnai e Alessandro Di Battista, lo si dica. Ma si avvertano per tempo gli intellettuali chiamati a riscrivere il manifesto dei valori, perché non basteranno un paio di paragrafetti in più.

(da www.linchiesta.it - 19 gennaio 2023)

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