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Astensionismo: le promesse non mantenute della democrazia?

di Paolo Razzuoli

Le ultime elezioni amministrative, indipendentemente da chi le ha vinte o di chi le ha perse, confermano una tendenza ormai radicata da decenni nell'elettorato italiano: quella del crescente astensionismo.
In verità non è solo un fenomeno italiano, come attestano anche le recenti elezioni francesi. In Italia assume connotazioni particolari, posto che da noi ancora negli anni '80 la partecipazione al voto risultava altissima, superiore alla media di democrazie ben più antiche e consolidate della nostra.

La constatazione che il crescente astensionismo è un dato che investe sostanzialmente tutte le democrazie occidentali, pone sicuramente il tema di una riflessione sullo stato di salute delle democrazie liberal-rappresentative.
Tema che da noi assume poi una specifica declinazione stante, come già sopra detto, che nei primi decenni della nostra storia repubblicana l'adesione al voto era altissima.

Come certamente i nostri lettori sanno, dopo le elezioni il tema dell'astensionismo viene stigmatizzato da tutti. Ma è un interesse sostanzialmente effimero, poiché di fatto non va ad inficiare il risultato elettorale. Insomma per qualche giorno se ne parla, poi il tema viene riposto nel dimenticatoio per essere ripreso, con la consueta ipocrisia, alle successive elezioni, quando la tendenza risulterà ancora in crescita.
Del tema della fragilità di istituzioni democratiche sempre meno rappresentative della volontà del corpo elettorale, della necessità di compiere senza infingimenti un'analisi seria e vera delle cause della disaffezione dalla politica della gente, non ci si occupa più, continuando ad agire come se nulla fosse.
Atteggiamento non poi così strano, in un Paese nel quale non si brilla certo per la capacità di andare oltre l'epidermide nell'analisi dei fattori di crisi, preferendo focalizzarsi sugli aspetti marginali proprio per evitare di mettere in discussione quegli intrecci di interessi e di abitudini che non si vogliono toccare.
Insomma, per farla breve, una seria riflessione sull'astensionismo implica la messa in discussione del modo di essere e di agire della politica, che realmente nessuno intende sinora affrontare.

Naturalmente nessuno può sapere quali potranno essere concretamente le conseguenze di questa crescente disaffezione del corpo elettorale.
Il mestiere di profeta è troppo pericoloso e non me ne assumo il rischio; mi difendo con due illustri citazioni: Nelle sue lezioni sulla filosofia della storia all’università di Berlino, Hegel, di fronte alla domanda rivoltagli da uno studente, se gli Stati Uniti dovessero essere considerati il paese dell’avvenire, rispose, manifestamente irritato: «Come paese dell’avvenire, l’America non mi riguarda. Il filosofo non s’intende di profezie […] La filosofia si occupa di ciò che è eternamente, ovvero della ragione, e con ciò abbiamo abbastanza da fare». Nella sua celebre conferenza, tenuta agli studenti dell’università di Monaco alla fine della guerra, sulla scienza come vocazione, Max Weber, ai suoi ascoltatori che gli chiedevano insistentemente qual fosse il suo parere sul futuro della Germania, rispose: «La cattedra non è né per i demagoghi né per i profeti».

Niente profezie quindi, né risposte a temi tanto complessi. Nelle prossime righe, nelle quali proporrò alcuni spunti di analisi, tante domande ma nessuna risposta, giacché le risposte potranno essere solo il frutto di un dibattito vero che dovrebbe coinvolgere la migliore "intellettualità" del Paese.

Dopo la seconda guerra mondiale, in Italia si respirava una fortissima voglia di partecipazione politica. Vinta l'oppressione fascista e riconquistata, a durissimo prezzo, la libertà, la partecipazione al voto veniva vissuta come la più alta espressione della ritrovata democrazia. Inoltre c'era una diffusa fiducia nella politica e nei partiti. Fiducia che si esprimeva non solo nella partecipazione al voto, ma altresì nella partecipazione alla vita dei partiti, che realmente rispondevano al loro compito di strumenti di collegamento fra la società e le sue istituzioni di governo, unitamente alla funzione di sedi di formazione sociale e politica.

Un contesto di fiducia e di grandi speranze; un contesto di grandi attese dalla democrazia. La straordinaria e meravigliosa prima parte della nostra Costituzione, ovvero quella dei principi generali, è un eloquente esempio di questo clima di grandi aspettative.

La nascente democrazia prometteva una stagione di inclusione, di trasparenza, di partecipazione, di crescita, di buon governo.
E qui si pone il primo elemento di riflessione: ci si è illusi troppo sulle aspettative riposte nella politica ed in special modo nella democrazia?

Non vi è dubbio però che, soprattutto negli ultimi decenni, abbiamo assistito a fattori di decadimento della qualità della politica che non erano prevedibili, unitamente ad un crescente affanno della stessa nel dare risposte alle nuove difficoltà e paure di ampi strati sociali, legate alle trasformazioni in atto che, solo qualche decennio fa, erano deltutto inimmaginabili.

Tutte le democrazie occidentali sono agitate da convulsioni cosiddette populiste. Gli elettorati sono sempre più sensibili a messaggi semplici ed immediati, confezionati per parlare più agli istinti che alla ragione. Messaggi amplificati dai social, che mettono il turbo alle pulsioni più irrazionali e pericolose.
La sfiducia nelle istituzioni rappresentative mostra preoccupanti segnali di crescita, in favore di visioni irrazionalmente miste fra ricerca dell'"uomo forte" e di pulsioni di "democrazia diretta". Una pericolosa miscela non poi così strana, posto che gli autocrati hanno spesso consacrato il loro potere con referendum che sono uno strumento di democrazia diretta.

La vittoria di Trump negli Usa, la Brexit, i risultati delle elezioni italiane del 2018, sono i più vistosi segnali di questa deriva della democrazia rappresentativa. Viene quindi da chiedersi se le dinamiche che vedono sempre più l'affermazione di istanze populiste sono il frutto di un "accidente patologico" della storia, oppure se sono il risultato di una evoluzione fisiologica del rapporto fra democrazia rappresentativa, ruolo dei social, delusioni, paure ed insicurezze riconducibili al tempestoso fruire degli eventi nella contemporaneità.

Sull'argomento mi pare molto interessante il contributo di Nadia Urbinati, con il saggio "Io, il popolo - Come il populismo trasforma la democrazia" - ed. Il Mulino, Bologna 2020.
Riporto una parte del testo di copertina: "Che tipo di democrazia è la democrazia populista? Da non confondersi con i regimi dittatoriali e autoritari, il populismo – nella prospettiva dell’autrice – va considerato una variante del governo rappresentativo, basata sul rapporto diretto tra un leader e il "suo popolo", rivendicato come "vero" contro l’establishment. Il rischio democratico non risiede allora nella domanda di espansione della democrazia, o nell’enfasi posta sul richiamo al popolo, ma nella selettività con cui il leader individua il suo popolo, facendone un’arma di parte da brandire contro l’altro. Il popolo dei populisti di fatto rifugge dall’inclusività e dalla generalità del popolo sovrano."

Sfiducia e rigetto della politica che si manifesta pertanto sotto due forme: da un lato l'affermazione di visioni antipolitiche e populiste, dall'altro il disimpegno dall'esercizio democratico, con l'astensione dal voto che costituisce, nelle democrazie rappresentative, l'atto di esercizio democratico per eccellenza.

Posta la necessità di una seria riflessione sulle tematiche sin qui enunciate, direi che alcuni elementi siano difficilmente controvertibili, almeno in Italia, per la loro palese evidenza.

Anzitutto la crisi dei partiti che, se pur con tutti i limiti che si vuole, rappresentavano un formidabile strumento di collegamento fra società ed istituzioni, di legittimazione del personale politico, unitamente ad una straordinaria fucina di formazione politica. Nei partiti ci si confrontava sul patrimonio valoriale condiviso, si faceva un sano tirocinio per comprendere le dinamiche e gli strumenti dell'azione politica, si contribuiva alla selezione della classe dirigente. E scusate se è poco....

In secondo luogo, anche come conseguenza del punto precedente, la classe politica è diventata sempre più autoreferenziale perdendo progressivamente la legittimazione dal basso. Legittimazione che rappresenta invece il presupposto fondamentale della rappresentatività. E' di tutta evidenza che un personale politico in caduta libera quanto a legittimazione, generi un rigetto da parte di strati crescenti dell'elettorato.
Un personale politico che viene percepito, con ragione, sempre più interessato al "gioco politico" per "mantenere la poltrona", anziché preoccupato del compito di rappresentare gli interessi generali della comunità nazionale.
Intendiamoci, entro certi limiti la difesa del proprio ruolo può essere fisiologica. Ma quando questa prospettiva diventa primaria, siamo ad un livello pericoloso di crisi della democrazia rappresentativa.
I "politici" hanno finito per costituire una categoria a se stante che è quella dei politici di professione, cioè di coloro, che per esprimermi con la definizione efficacissima di Max Weber, "non vivono soltanto per la politica ma vivono di politica".

Quale terzo elemento di riflessione propongo quello della vacuità delle promesse elettorali. L'obiettivo primario dell'accaparramento del consenso, porta il personale politico alle promesse più improbabili, ed alle proposte più stravaganti. La bussola dei programmi elettorali ha cessato di essere qualcosa di credibile, ovviamente nella diversità delle prospettive valoriali e di prassi politica. La logica dominante è quella di dire ciò che gli elettori vogliono sentirsi dire, anche tramite i sondaggi, che sono una vera "maledizione", alla base della perversa "dittatura del presente".
Una logica perversa che crea illusioni, che si gonfia di promesse non mantenibili; una logica che quando presenta il conto (e prima o poi inevitabilmente lo presenta), non può che alimentare rabbia e rifiuto.

quale quarto dato meritevole di attenzione, propongo il diffondersi dell'assunto populista secondo il quale "uno vale uno". Un perverso equivoco, che la disgregazione dei partiti ha purtroppo incoraggiato, e che si traduce, in soldoni, nel convincimento che "tanto sono tutti uguali; cambiano solocoloro che mangiano alla greppia"...
Solo con una forte ripresa di idealità e con un forte impegno progettuale, si potrà sperare di invertire la rotta.

Infine il perverso intreccio fra una lotta politica sempre più imbarbarita, ed il circuito mediatico con particolare riferimento ai social, che mettono il turbo alle pulsioni più populiste e selvagge.
E' un contesto assolutamente nuovo, i cui esiti sono imprevedibili. Intanto il messaggio dovrebbe essere quello di non usarli in modo strumentale, e di cercare di riportare il dibattito politico entro confini anche di durezza, ma sul progetto politico, non sulla continua delegittimazione dell'avversario.

A questi punti potrebbero certamente aggiungersi altri, ad esempio la mancanza di credibile progettualità nell'ottica del futuro delle nuove generazioni, ma mi sembrano già sin troppo ampi rispetto alla capacità di analisi che la cultura politica sta mettendo in campo.
Direi che è sin troppo scontato parlare di crisi della rappresentatività della classe politica. Aggiungo che la salute delle istituzioni democratiche è direttamente proporzionale alla partecipazione dei cittadini. Quindi non godono di buona salute, almeno sotto la lente della rappresentatività.

Si potrebbe dire che la democrazia rappresentativa sta degenerando in una "democrazia recitativa" in cui una classe politica impegnata soprattutto a tutelare se stessa recita una sorta di copione tragicomico in cui il "popolo" è una sorta di "convitato di pietra", sempre sul proscenio, ma muto ed impotente, anche se si dice che tutto deriva da lui, che tutto viene fatto per lui, che tutto viene fatto per conto di lui (dal popolo, per il popolo, del popolo).

Come già ho detto, ci vorrebbe la sfera di cristallo per sapere come si evolverà la nostra democrazia.
Come si sa, la storia di sovente imbocca le strade più imprevedibili.

Intanto sarebbe auspicabile che questi temi venissero affrontati seriamente, e non solo "recitati" per un paio di giorni dopo le elezioni, per poi essere dimenticati in un cassetto sino alla successiva tornata elettorale.

Lucca, 2 luglio 2022)

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