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La guerra in Europa conclude la lunga fase della chiusura autoreferenziale della politica italiana

di Francesco Cundari

La guerra portata da Vladimir Putin nel cuore dell’Europa e ai confini della Nato non cambia soltanto le coordinate della politica estera, come dimostrano le tante analisi e previsioni sbagliate (per tacere della propaganda); sta già cambiando anche le regole della politica interna.

Per circa mezzo secolo in Italia, paese di frontiera della guerra fredda, l’appartenenza all’uno o all’altro schieramento internazionale rappresentava il criterio fondamentale della politica interna, che definiva chi poteva andare al governo e chi doveva stare all’opposizione, quali partiti potevano allearsi e quali no.

Dopo la fine del comunismo, con il venir meno della politica dei blocchi, in Italia la politica estera ha assunto un carattere più istituzionale e consensuale, meno divisivo e in un certo senso anche meno politico. Le grandi crisi internazionali, dalla Jugoslavia all’Iraq, hanno avuto naturalmente un peso nei rapporti tra i partiti, ma al tempo stesso, almeno per larga parte di questi trent’anni, è sembrato che diverse opzioni di politica estera potessero convivere in una stessa coalizione e persino in uno stesso governo, come se si trattasse di dissensi sulla politica agricola o su qualsiasi altra questione.

Il fatto che occasionalmente tali divergenze abbiano prodotto degli effetti, e persino messo in crisi governi, non toglie che ripetutamente abbiamo visto presentarsi alle elezioni coalizioni che comprendevano ultra-atlantisti e partiti che chiedevano, o avevano chiesto fino a poco prima, l’uscita dell’Italia dalla Nato. Uno scenario inimmaginabile solo pochi anni prima, e forse altrettanto inimmaginabile nel prossimo futuro.

Probabilmente il momento in cui le contraddizioni nascoste da questa lunga sottovalutazione sono emerse in primo piano è stato all’indomani delle elezioni del 2018, con la breve crisi costituzionale consumatasi attorno al caso Savona, conseguenza diretta del fatto che buona parte delle forze politiche uscite vincitrici dal voto aveva assunto posizioni diametralmente opposte alla tradizionale collocazione euro-atlantica del paese. Ma la lezione è stata prontamente dimenticata.

Ora però non è più possibile fare finta di niente. La drammatica novità dell’invasione russa dell’Ucraina, la durezza delle immagini e delle notizie che provengono dal campo di battaglia, i timori suscitati nei paesi confinanti (e membri della Nato), il modo in cui lo stesso Putin ha presentato e giustificato l’attacco all’interno di una purissima logica da guerra fredda: tutto fa pensare che l’epoca in cui alleanze politiche e di governo potevano prescindere (o quasi) dalle grandi scelte di politica internazionale sia ormai avviata a conclusione.

Il Partito democratico farebbe bene a valutare dunque con attenzione, prima di ipotizzare nuove coalizioni, le resistenze di Giuseppe Conte a prendere una posizione netta (o il fatto che alla manifestazione davanti all’ambasciata russa fossero presenti tutti i partiti del campo progressista, da Azione a Sinistra italiana, ma non i grillini).

Del resto, non si può certo dire che sia una novità, per quel mondo. E lo spettacolo offerto non solo dalle sparate di Alessandro Di Battista o del Fatto quotidiano, ma anche da molti parlamentari nel corso del dibattito di ieri sulle comunicazioni del presidente del Consiglio, in particolare tra i fuoriusciti del Movimento 5 stelle, ne è la più triste conferma. I loro sproloqui filoputiniani, in queste ore drammatiche, dovrebbero suonare come un memento tanto alle orecchie dei dirigenti del Pd quanto dei cittadini che li hanno eletti.

(da www.linchiesta.it - 26 febbraio 2022)

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