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Le nostre fragili istituzioni e la libertà appesa a un filo

di Angelo Panebianco

Al momento c’è da gestire il contrasto alla pandemia e l’impiego dei fondi europei ed è rassicurante disporre di un governo di alto profilo. Ma poi cosa si fa?

Après Draghi le déluge? Dopo Draghi il diluvio? Perché ad eccezione di alcuni bastian contrari (che naturalmente hanno tutto il diritto di esserlo) tutti pensiamo che il governo Draghi sia un’ottima cosa? Perché l’Italia si è aggrappata a una persona? Certo, per il prestigio e la qualità della sua leadership. Però un Paese che pensa di non avere alternative, che paventa un eventuale dopo-Draghi immaginando che l’intera casa potrebbe crollarci di colpo addosso, sta dichiarando al mondo che non si fida di se stesso, che è consapevole di quanto fragile e precaria sia diventata la propria esistenza.

Al momento, c’è da gestire il contrasto alla pandemia e la messa a frutto dei fondi europei con i connessi e complessi provvedimenti. È rassicurante disporre di un governo giudicato di alto profilo, all’altezza, sia da noi che dagli altri governi. Nella speranza, naturalmente, che la classe politica, alle prese con una delle più difficili elezioni del capo dello Stato della storia repubblicana, non finisca per perdere la bussola, facendo vacillare le mura lesionate dell’intero edificio. Sì, ma poi? Superato questo scoglio, che si fa? La cosa più impressionante è che la consapevolezza generale della fragilità delle nostre istituzioni non abbia ancora generato reazioni di sorta, che non circoli, non dico un progetto ma neppure qualche vaga idea su come puntellare la molto mal messa democrazia italiana.

Questo disinteresse non riguarda solo la classe politico-partitica, con il suo orizzonte temporale inevitabilmente compresso e ristretto. Vale anche per quella che un tempo si sarebbe definita la «classe dirigente»: imprenditori, dirigenti delle istituzioni finanziarie, vertici delle varie categorie professionali, intellettuali, addetti alla comunicazione. L’elenco delle disfunzioni (si tratti di Parlamento, amministrazione, giustizia o altro) lo hanno sempre fatto tutti ed è noioso ripeterlo. Per ricordare quanto sia pesante l’emergenza istituzionale basterà citare, fra i tanti possibili, un solo aspetto: i rapporti fra centro e periferia. Prima che la gravità della sfida pandemica imponesse una centralizzazione di fatto del potere decisionale ricordate in quale confusione fosse immerso il Paese? Nella fase iniziale della diffusione del virus, governo, regioni e Comuni, da un lato, si rimpallavano le responsabilità (di ciò che non funzionava) e dall’altro si contendevano competenze e autorità decisionale. In quel momento fu chiaro a tutti (o avrebbe dovuto esserlo) quanto mal messo sia il nostro sistema istituzionale in un suo aspetto nevralgico. Quando la pressione della pandemia si sarà allentata e quando, per conseguenza, il potere decisionale, oggi centralizzato di fatto, tornerà a rifluire lungo la piramide istituzionale, si può stare certi che tutto ciò che non va nelle relazioni centro-periferia (chi ha il diritto/dovere di prendere quali decisioni?) tornerà a manifestarsi. C’è per caso in giro qualche proposta su come rimediare?

No, non c’è. La ragione ha a che fare con una caratteristica della nostra cultura politica. Per essa sembra che a contare siano solo le persone, ciò che esse pensano e dicono, e che le istituzioni non contino nulla. Secondo le narrazioni dominanti, «ciò che va e ciò che non va» dipendono dalle caratteristiche personali che attribuiamo agli uni e agli altri: quello è «onesto» e quell’altro no, quello è «serio» e quell’altro no, quello è «affidabile» e quell’altro no. La qualità delle persone è importante ma lo è anche il modo in cui sono congegnate le istituzioni: esso non determina ma comunque condiziona il comportamento delle suddette persone. Tanto meno siamo capaci di ragionare sul malfunzionamento delle istituzioni, tanto più tendiamo a scivolare nel moralismo, a farne la vera cifra del dibattito pubblico.

La svalutazione del ruolo delle istituzioni spiega anche, almeno in parte «l’effetto Draghi». Dimenticando che il primo ministro in Italia non ha il potere del presidente francese, del premier britannico o del cancelliere tedesco, non comprendiamo che l’attuale concentrazione del potere nelle mani di Draghi è solo la conseguenza, inevitabilmente transitoria, dello stato di emergenza innescato dalla pandemia. Quando la pressione dell’emergenza si ridurrà, torneremo a fare i conti con gli scarsi poteri di cui il primo ministro, in una democrazia assembleare come la nostra, si trova in realtà a disporre. Chiunque sia, in quel momento, il primo ministro, Draghi o un altro.

Il «momento di non ritorno», il momento in cui si aggrava l’avvitamento della democrazia italiana, a parere di chi scrive, risale a cinque anni fa, al risultato del referendum costituzionale del 2016. Quel referendum fu, da un lato, la dimostrazione di qualcosa che già c’era e, dall’altro, la causa principale di ciò che è venuto dopo. Fu innanzitutto una dimostrazione dello scarso interesse generale per il funzionamento delle istituzioni della democrazia. Tolte due ristrette minoranze (quelli che, con il sì, volevano superare la democrazia assembleare, e quelli che, con il no, volevano difendere la «Costituzione nata dalla Resistenza»), per tutti gli altri fu soltanto un referendum a favore o contro Matteo Renzi. Con scarso interesse per la vera posta in gioco.
Ma quel referendum fu anche causa di molto che è accaduto dopo. Seppellendo definitivamente qualunque velleità di riforma delle istituzioni, il risultato di quel referendum (per inciso, la riforma che venne allora bocciata riguardava anche i rapporti centro-periferia) ci ha lasciati disarmati.

Il disinteresse per le istituzioni e il loro funzionamento si manifesta in ogni occasione. Si prendano ad esempio le continue lamentele per la scarsa qualità della classe politica. Le classi politiche sono costrette a praticare reclutamenti di livello solo in un caso. Se hanno di fronte un folto pubblico esigente che non tollera il pressapochismo. Ma dopo trent’anni e passa di incuria delle istituzioni educative, perché mai dovrebbe esistere quel folto pubblico? Se quel pubblico non c’è, viene a mancare l’incentivo a migliorare meccanismi e canali di reclutamento della classe politica.

Per ora abbiamo nascosto il problema del malfunzionamento delle istituzioni (di governo e non) sotto il tappeto. Ma fra breve, c’è da temere, ci esploderà in faccia. La fragilità istituzionale mette sempre a rischio le democrazie. Sono argomenti noiosi? Forse. Ma libertà e prosperità sono appese a un filo. Occorrono idee su come irrobustirlo.

(da www.corriere.it - 13 novembre 2021)

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