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Indecisi a tutto - La grande fifa dei riformisti di Lega, Forza Italia e Pd e la crisi della democrazia dei partiti

di Mario Lavia

Non si può dire che Matteo Salvini sia stato ambiguo: tra Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti ha scelto Giorgia. La destra estrema. Tutto alla luce del sole, va detto: il giorno dopo che il suo numero due gli aveva chiesto di guardare ad Angela Merkel e Ursula Von Der Leyen, il leader della Lega si è rivolto a due para-dittatori di destra come Mateusz Morawiecki e Viktor Orbán per fare il gruppo della destra europea, altro che Partito popolare europeo. Più chiaro di così si muore.

 

Dopodiché, in perfetto stile cominternista, il consiglio federale della Lega ha votato all’unanimità il pieno sostegno al Capitano e alla sua linea. Anche Giorgetti si è accodato. Un esito avvilente, da Partito comunista dell’Unione sovietica, quando chi dissentiva era tenuto a pronunciare un elogio della linea ufficiale.

 

In Forza Italia da mesi c’è un pezzo del gruppo dirigente che sbandiera il suo europeismo e filo-draghismo in contrapposizione a una linea giudicata troppo subalterna al sovranismo, un dissenso culminato nella impegnativa intervista di Renato Brunetta nella quale il ministro disegnava una linea alternativa a quella ufficiale del suo partito, tranne poi andare tutti a far festa nel villone romano di Silvio Berlusconi che è diventato anche il candidato di tutto il centrodestra al Quirinale.
Quindi l’andazzo è continuato come prima, peggio di prima.

Sul Partito democratico il discorso sarebbe lungo, ma basti qui osservare che la corrente sbrigativamente definita degli ex renziani che si chiama Base riformista da una parte sostiene il segretario e dall’altra (specie nei conversari privati) ne sottolinea l’inabilità e a voto segreto gli manda un segnale inequivocabile. Dopodiché la riunione del gruppo dei senatori, convocata sul disastro compiuto sulla legge Zan, si conclude all’unanimità: si sta da separati in casa, ma tutto procede come se niente fosse, domani è un altro giorno, si vedrà.

Da tutto questo emergono alcune cose. Innanzitutto, il nervosismo che attraversa le principali forze politiche, tranne il monolite meloniano, almeno finché le cose andranno relativamente bene. Del Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte si fa presto a dire che non esiste una vera dialettica ma solo una ricerca di sopravvivenza individuale, dunque non è una questione politica.

 

Questo nervosismo dentro la Lega, Forza Italia e Pd è chiaramente legato alle incognite che connotano i rispettivi orizzonti politici ma anche – questo è il punto – a una prassi malata della vita interna, ove prevale sempre il terrore di rompere, di essere emarginati, di non venire ricandidati, di finire nella cosca perdente.

 

L’opportunismo è un vizio che c’è sempre stato ma mai a questi livelli. Nella Democrazia cristiana, nel Partito socialista italiano e a suo modo nello stesso Partito comunista (specie nell’ultimo Pci) le battaglie si facevano, le minoranze parlavano, facevano iniziative, avevano proprie riviste e si giocavano la leadership nei congressi, quelli veri. Senza esaltare un passato che ha conosciuto gravi magagne, tuttavia la dialettica era più limpida.

Mentre adesso è tutto un sussurrare, mandare veline, dichiarare senza essere citati, incontrarsi nelle case private. È il terrore che corre sul filo di gente che teme di perdere ruolo, in qualche caso persino il lavoro. Quest’ultimo aspetto, in un tempo di crisi, è diventato davvero un freno alla libertà di movimento dentro i partiti. Oppure prevale l’idea di aspettare tempi migliori (ma quando arrivano?), per cui al massimo si getta il sasso per vedere l’effetto che fa, come ci pare abbia inteso fare Giorgetti e forse Brunetta prima di lui, ma poi ci si ferma lì. Poi per forza irrompe, e per fortuna, Mario Draghi: che stia lì, ormai, la Politica?

E invece sta per giungere il momento in cui ciascuno dovrà scoprire le carte perché vuoi o non vuoi si sta entrando in un lunghissimo periodo pre-elettorale.
Le posizioni andranno chiarite. Cosa vuol fare, ad esempio, Base riformista, dalla quale era lecito attendersi uno sforzo per evitare che il Pd scivolasse su posizioni identitarie con proposte meramente di bandiera, e invece è scivolata verso la linea frontista e tutto sommato attendista di Enrico Letta.
Possibile che Irene Tinagli e Lorenzo Guerini non sappiano trovare una ragion d’essere che non sia un mesto aiutare Letta?

Peccato che la prima occasione non sarà la più idonea per fare chiarezza: le votazioni al Quirinale potrebbero essere i pizzini contro questo o quel leader, un parossistico incrocio di messaggi cifrati all’ombra dello scrutinio segreto. Ci vorrebbe invece, come ai bei tempi, una stagione congressuale con Giorgetti contro Salvini, Mara Carfagna contro Antonio Tajani, mister X contro Letta. Uno scontro di idee, non (solo) una lotta per la leadership.

 

Mentre aspettiamo che i piccoli – Azione, Italia viva, +Europa, Cambiamo, Coraggio Italia – decidano che cosa vogliono fare da grandi, sarebbe bello se i tre indecisi a tutto (cit. Ennio Flaiano) ci facessero capire qualcosa e aprissero le porte alla libera e trasparente battaglia interna.

(da www.linchiesta.it - 6 novembre 2021)

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