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il governo (difficile) delle città

di Ernesto Galli della Loggia

Non è solo dei partiti la colpa della massiccia astensione registrata alle elezioni amministrative di qualche giorno fa.
In misura maggiore la colpa va attribuita, a mio avviso, al perverso combinato disposto giuridico-burocratico italiano che domina ogni attività di governo. Che condiziona e immobilizza in una rete paralizzante qualunque potere nato dalle urne, a cominciare da quello degli amministratori locali. Condannando quindi tale potere a essere poco o nulla incisivo. Sicché le città che per antica tradizione godono di un buon governo continuano a farlo, le altre continuano con i loro problemi di sempre quasi sempre aggravati, e chi sia a governarle non fa all'incirca alcuna differenza.

Certo, la crisi dei partiti esiste. Esiste la crisi della partecipazione che essi riescono (o meglio non riescono) a promuovere. Così com'è dei partiti la responsabilità per la scelta dei candidati. E' evidente, ad esempio, che a Milano o a Roma non potevano essere certo in molti a sentirsi spinti ad andare alle urne per sostenere dei perfetti sconosciuti come i due aspiranti sindaci per il centrodestra, Luca Bernardo ed Enrico Michetti, che già dalla loro prima apparizione si portavano cucito addosso il triste abito dei perdenti. Sull'altro versante, quello dell'elettorato di sinistra, perché mai questo avrebbe dovuto accorrere in massa a sostenere il candidato della propria parte, vincitore arcisicuro contro le nullità di cui sopra?

Giorgia Meloni e Matteo Salvini, non hanno perciò alcuna ragione di deprecare oggi la scarsa affluenza alle urne. Come si può pretendere, infatti, che i cittadini accorrano a partecipare con il voto a una gara nella quale manca qualunque competizione?

Questa però è solo una parte della verità. La parte minore. Quella maggiore, come dicevo all'inizio, sta nel sempre minore potere effettivo di incidere che ha chi viene eletto per governare una città. Sta nella possibilità sempre minore di imprimere una svolta, di cambiare le cose che contano. C'è qualcuno davvero convinto, ad esempio, che il neosindaco di Roma Roberto Gualtieri possa far funzionare la raccolta dei rifiuti della Capitale, risolvere il problema drammatico del trasporto urbano e quindi del traffico, risanare le condizioni precarie di tanti edifici scolastici, dare un volto umano alle periferie abbandonate, preda del degrado e dello spaccio, far ripulire strade e tombini, liberare la città dagli stormi di gabbiani che se ne sono impadroniti, restaurare i parchi della città ridotti da anni ad una giungla?

Sarebbe bello crederlo. Ma per farlo bisognerebbe prima rispondere a una domanda: tutti quelli appena elencati sono problemi che si trascinano da decenni; come mai ciò nonostante non solo non sono mai stati risolti, ma anzi sono andati sempre aggravandosi, nonostante che al Campidoglio si siano succeduti sindaci dal colore politico più diverso, da Rutelli ad Alemanno, da Veltroni a Virginia Raggi? Tutti incapaci? Tutti inadatti, tutti senza idee e voglia di fare?

No di certo. Piuttosto, essendo tutti nell'impossibilità pratica di cambiare davvero (la costruzione di un auditorium è stato il massimo obiettivo raggiunto), quelli più scaltri hanno capito che allora conveniva dedicarsi solo ad operazione di pura facciata ma di immagine (tipo l'"estate romana"), mentre gli altri non hanno fatto neppure questo sprofondando sempre di più nelle sabbie mobili dell'impotenza e del discredito. D'altra parte, che gli stessi candidati sappiano benissimo, o intuiscano che una volta eletto nessuno di loro sarebbe in grado neppure lontanamente di guarire qualcuno degli storici mali della città, è testimoniato dal fatto che a proposito di tali mali nessuno di loro si sia azzardato a fare la minima proposta concreta. La loro campagna elettorale si è risolta in un mare di genericità, inevitabilmente anche abbastanza simili, in un elenco di problemi privi di qualunque indicazione precisa circa i modi e i mezzi per risolverli. In quante altre città d'Italia, mi chiedo, accade da molti anni la stessa cosa?

Del resto la campagna elettorale prefigura la realtà. Nella realtà, infatti, il sindaco di una città come Roma (così come di tantissime altre) se vuol fare qualcosa si trova davanti un muro. Egli non ha la possibilità di tassare incisivamente niente e nessuno, non può licenziare nessuno degli addetti a macchine municipali che spesso sono rifugio di una miriade di mangiapane a tradimento, non può assumere al suo servizio nessuna competenza significativa e metterla in condizioni di operare; qualunque cosa si metta in testa di fare è ingabbiato in una selva di leggi e disposizioni di ogni genere che allungano a dismisura tutti i tempi di decisione e di esecuzione; quasi sempre non dispone neppure di servizi tecnici adeguati, e per finire deve convivere con una miriade di sigle sindacali quasi tutte fasulle (vedi a Roma la situazione dell'azienda per la raccolta dei rifiuti) che però gli rompono quotidianamente le scatole.

Come ci si può scandalizzare, allora, se nella campagna elettorale i candidati si guardano bene dall'affrontare la complessità dei problemi, dal parlare di cose precise, e invece s'impegnano all'incirca tutti per gli stessi vaghissimi (e perlopiù improbabilissimi) traguardi?

Ma precisamente questa è una delle malattie mortali della democrazia. Che insorge quando i cittadini cominciano ad accorgersi che il loro voto è inutile perché per mille motivi coloro che essi eleggono in realtà non riescono né a cambiare né a far nascere nulla; quando si accorgono che in realtà l'unico strumento di cui essi dispongono per migliorare la propria vita, e cioè la politica, non serve a questo ma solo ad assicurare il potere di chi la esercita.
Forse l'antipolitica è quasi sempre solo la richiesta, in forme sbagliate, di una politica diversa.

(dal Corriere della Sera - 24 ottobre 2021)

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