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La dottrina occidentale - Ricordare l’11 settembre ricordando che cosa è stato l’11 settembre

di Christian Rocca

Con un magnifico articolo, ieri Giuliano Ferrara ha ripercorso il grande arretramento globale dei vent’anni trascorsi dall’11 settembre 2001: «Pare che la democrazia non si possa esportare – ha scritto Ferrara – ma tutto il resto è aperto all’importazione» (bentornato, Giuliano!).

«Tutto il resto», secondo il fondatore del Foglio, è un elenco di cose che abbiamo importato, e che qualcun altro quindi ha esportato con successo, mentre noi facevamo gli schizzinosi con l’idea di promuovere la democrazia liberale nei luoghi del terrore, della persecuzione, della cultura dell’odio.

 

Abbiamo importato, alimentato e diffuso il populismo, l’autoritarismo, le democrature, l’imperialismo cinese, il putinismo annessionista, le pulizie etniche, l’islamismo di governo, la cancel culture, il Cialtrone in Chief e l’ignavia americana del buon uomo Joe Biden.

 

Vent’anni dopo l’11 settembre, i giornali italiani perlomeno ci hanno risparmiato le corbellerie islamiste di Tariq Ramadan, protagonista assoluto di molti dei precedenti anniversari quando impazzava il relativismo culturale, ma oggi dimenticato perché con la proliferazione dell’Isis, con le stragi in Siria, con le bande armate in Libia e ora con il governo Talebano bis c’è poco da scherzare.

La pericolosità di quell’ideologia politica teocratica fondata sulla guerra santa alla civiltà dello stato di diritto è palese e nessuno la considera più un pretesto delle multinazionali per accaparrarsi il petrolio o altre scemenze che si portavano molto in passato e che ora, altrettanto stupidamente, si imputano alle case farmaceutiche rispetto al vaccino contro la pandemia.

 

L’occidente è in ritirata: scopre a tempi di record la cura contro il virus “cinese” e alimenta la teoria dell’autocomplotto di Big Pharma e di Bill Gates, ripetendo a pappagallo le panzane di Putin sullo Sputnik e di altri reduci del comunismo sul vaccino autarchico cubano. Nessuno dei due funziona, sono entrambe patacche al pari delle ideologie residuali che li propagandano per ammaliare gli allocchì di destra e di sinistra di cui è ricco l’occidente.

 

Le democrazie liberali si autoflagellano in virtù del loro stesso successo, la fondazione Churchill toglie il nome Winston dalla propria ragione sociale per non offendere la suscettibilità non si sa di chi, forse quella dei nazisti, ma soprattutto non ci sono più leader visionari come i giganti che hanno guidato il mondo tra gli anni Novanta e il cambio di secolo, per non parlare di quelli del decennio precedente.

 

Il mondo che conosciamo, e che non riconosciamo più, in sessant’anni ha diffuso libertà e distribuito ricchezza senza precedenti nella storia dell’umanità, mentre oggi, quando va bene, dispone soltanto di ottimi amministratori e di buoni funzionari, ma senza alcun progetto strategico per un nuovo secolo di diritti veri (non di idiozie da asterischi e cancelletti), se non quello di un grande catenaccio globale per ritardare l’erosione della società aperta, apertissima, spalancata, ma ora in lenta ma perentoria chiusura.

 

Per chiunque oggi abbia più di quarant’anni, l’undici settembre è una data che non ha bisogno di essere ulteriormente definita, è l’undici settembre e basta, non ne esistono altri, nemmeno quello del golpe contro Salvador Allende in Cile che tanto ha influenzato la politica di mezzo mondo. Ma l’undici settembre di cui adesso ricordiamo il ventennale è di un’altra dimensione spirituale, tale è stato l’impatto che ha avuto sulla coscienza e sulla quotidianità di chi lo ha vissuto. Per tutti gli altri, più giovani, è soltanto un evento storico, come la presa della Bastiglia o la bomba su Hiroshima o l’assassinio Kennedy, non il giorno del «nulla sarà più come prima».

La distanza dagli eventi storici è tutt’altro che una cosa negativa, ma a condizione che le lezioni non si dimentichino. Oggi c’è l’idea che la reazione americana e internazionale alle stragi nei cieli e sulle strade di New York, di Washington e della Pennsylvania sia stata folle e criminale (la reazione, non la strage, se vi fosse sfuggita la stravaganza), quando invece è stata il prodotto di una grande offensiva globale che ha individuato una risposta strategica fondata sull’espansione della democrazia, sull’abbattimento dei regimi filo terroristi e sullo spostamento del fronte bellico da Downtown Manhattan alle montagne dell’Afghanistan, dove a combattere ci sarebbero stati dei soldati ben addestrati e non semplici passanti alla fermata dell’autobus.

 

Vent’anni dopo, l’America può dire di non aver più subito attacchi sul proprio suolo, ma quasi tutto il resto delle conseguenze politiche e militari oggi ricade nella colonna dei fallimenti. La storia non si può fare con i se, per cui non sappiamo se senza l’intervento armato per annientare Al Qaeda e i suoi alleati, e senza il tentativo di costruire nazioni democratiche in Medioriente, ci sarebbero stati altri attacchi all’America oppure si sarebbe ottenuto lo stesso risultato non facendo nulla. Sappiamo però che non aver fatto nulla in occasione di un precedente attentato jihadista alle Torri gemelle, nel 1993 (sei morti, oltre mille feriti), in seguito alle stragi di Al Qaeda nelle ambasciate americane in Africa, nel 1998 (224 morti, quattromila feriti), e alla nave USS Cole, nel 2000 (27 morti, 37 feriti), non ha evitato l’undici settembre.

 

Resta che vent’anni dopo, la dottrina dell’ingerenza democratica in Medio oriente non ha funzionato, al contrario del risultato tutto sommato accettabile nella ex Jugoslavia (in difesa delle minoranze musulmane vessate dai nazionalismo bianco e socialista). Ma non hanno funzionato nemmeno i mancati interventi militari in Siria, i ritiri dall’Iraq e dall’Afghanistan, le sanzioni in Iran, il girarsi dall’altra parte ormai ovunque, gli accordi con gli ayatollah e le trattative con i Talebani, probabilmente perché la democrazia, un sistema costruito sui diritti e sulla società aperta, è un’esperienza giovane e con una capacità attrattiva decisamente più debole rispetto alla tradizione millenaria islamista.

L’undici settembre si ricorda innanzitutto ricordando davvero le ore, i giorni, le settimane che sono seguite al primo aereo che ha tagliato come burro la torre sud del World Trade Center. L’incredulità, l’ansia, la rabbia: un sentimento di impotenza paragonabile solo al cataclisma della pandemia da coronavirus, ma arrivato e consumato all’improvviso e in diretta televisiva.

Quella mattina americana, primo pomeriggio da noi in Italia, gli aerei erano ancora in volo, ciascuno un potenziale proiettile, poi l’altra torre colpita, e il Pentagono, e la Casa Bianca o Capitol Hill come possibili obiettivi successivi, l’evacuazione dell’intero governo di Washington, la decisione presa ma non eseguita di abbattere tutti gli aerei civili in volo che si fossero rifiutati di atterrare, poi entrambe le torri che si sbriciolano al suolo, gli altri edifici in fiamme e poi in cenere, le voci sull’Air Force One in fuga dal sud a ovest, da ovest a est, come il vero target grosso di giornata, e poi l’odore di corpi bruciati, le persone scomparse, i familiari attoniti, gli eroi della protezione civile, tutto raccontato mirabilmente da William Langewiesche su carta e da Bruce Springsteen in musica. E poi altri attacchi sventati, le indagini, i pacchi con le spore all’antrace inviate al Senato e nelle sedi dei giornali (altri cinque morti e una mezza dozzina di avvelenati).

Così per giorni, settimane, mesi, con le prime ore raccontate magistralmente in un formidabile documentario “9/11: Inside the President’s War Room”, trasmesso da Apple TV, con le voci dei protagonisti del governo degli Stati Uniti, braccato, in preda al panico ma anche lucido nel formulare, proprio in quei momenti concitati, la fine della distinzione tra i terroristi e le nazioni che li ospitano, come elemento fondamentale della dottrina di sicurezza internazionale per gli anni a venire, abbandonata poi in modo felpato da Barack Obama, ruvidamente da Donald Trump e finita col cerino rimasto in mano a Joe Biden.

 

La riconsegna dell’Afghanistan alla setta talebana che aveva coccolato Al Qaeda, e che ora mette il capo terrorista della rete Haqqani al Ministero dell’Interno, è potenzialmente catastrofica per la possibile recrudescenza del terrorismo internazionale e immorale nei confronti delle vittime dell’undici settembre.

La fuga per la libertà di centinaia di migliaia di afghani e le proteste disperate delle donne coraggiose di Kabul, tornate a valere metà di un uomo e destinate esclusivamente alla prigionia e alla procreazione, confermano che nonostante tutto l’errore occidentale sia stato lasciare l’Afghanistan, non andarci.

(da www.linchiesta.it - 11 settembre 2021)

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