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Effetto Draghi - Le amministrative potrebbero sancire la fine del ciclone populista

di Mario Lavia

Ci sarà un effetto Draghi sulle amministrative? Non equivochiamo. Non nel senso tradizionale per il quale la figura del premier “aiuta” elettoralmente questo o quel partito, a partire dal suo. Stavolta è chiarissimo che la vicenda nazionale viaggia su un altro piano rispetto a quella dei governi locali, innanzi tutto perché il governo centrale si regge su una maggioranza molto particolare diretta da un presidente del Consiglio anomalo e indipendente in tutto e per tutto (per fortuna) e dunque per davvero il capo del governo guarderà i risultati del 4 ottobre con occhio distratto.

No, semmai il vento di Draghi potrebbe soffiare nel senso di orientare gli elettori a scegliere sindaci più professionali, più politici, decretando la morte cerebrale di quel “populismo locale” che ha sancito la (breve) egemonia populista di questi anni simboleggiata dalle vittorie di Virginia Raggi e Chiara Appendino contro due politici come Roberto Giachetti e Piero Fassino a Roma e Torino e ancor prima di Luigi De Magistris a Napoli. In effetti è toccato spesso alle elezioni amministrative fare da “laboratorio” per passaggi nazionali successivi: dalla vittoria dei sindaci progressisti del ‘93 che posero qualche tassello per il futuro Ulivo alle citate vittorie grilline di cinque anni fa che spianarono la strada al trionfo del M5s alle politiche del 2018. Questa volta potrebbe accadere il contrario: la dinamica nazionale, imperniata su Mario Draghi, potrebbe influire sul voto di ottobre nel senso di dare un colpo forse mortale alla stagione dell’antipolitica.

Ma in fondo era prevedibile. Più torna la buona politica più cala il ciclone populista. Quando sarà il momento, forse sarà questa la lezione più forte da trarre dall’esperienza draghiana intesa come pieno ritorno della razionalità sul podio più alto della politica. E non è un caso che lo stop al grillismo possa essere suonato proprio dal gong delle grandi città.

La rabbia contro la “casta” e tutto l’armamentario grillesco trovarono infatti qui il terreno migliore per la crescita della malapianta del populismo 2.0 perché è nelle città che la frattura fra società e istituzioni è stata, ed è, più drammatica. Ed è nelle città, falliti gli esperimenti di governo pentastellati, che la politica come buona tecnica di governo può riprendere il suo posto, alla fine facendo concludere gli storici di domani che il populismo nasce e muore nelle metropoli.

E così, ad un mese dal voto, già si può dire con certezza che il Movimento 5 stelle, gigantesco collettore del populismo italiano, non avrà nessun sindaco, ed è anche sicuro che in Calabria De Magistris non ripeterà i trionfi napoletani (così impara a cercar fortuna lontano da casa sua). Insomma i simboli di una fase tormentata e malmostosa stanno cadendo certo per ragioni varie e complesse ma anche per questa inattesa riscoperta della politica come professione e della competenza come calamita del consenso.

Vedremo se i risultati confermeranno questa sensazione ma già adesso si può dire, indipendentemente dal risultato finale, che alla luce di tutto questo la destra non ha azzeccato i candidati a sindaco (fatta eccezione forse per il torinese Paolo Damilano). Il candidato della destra a Roma Enrico Michetti sta scontando una evidente difficoltà d’immagine e di rapporto con i cittadini proprio a causa di quella venatura populista (“esperto” in una radio locale eccetera) che mina gravemente il suo standing di possibile sindaco della Capitale d’Italia. Azzardiamo in questo senso che a Roma sarebbe stato molto meglio un candidato politico a tutto tondo: a parte Giorgia Meloni, persino un Gasparri sarebbe stato più forte. Errore blu della destra.

Lo stesso andamento della campagna elettorale segnala, a parte inevitabili follie (da ultimo, l’incredibile vicenda della candidata nella lista di Michetti, Francesca Benevento, no vax e antisemita che il candidato sindaco non riesce «a rintracciare»), denota una certa civiltà del confronto e anche una non scontata attenzione alle proposte dei candidati. La scena si presenta più “british” di tante altre consultazioni elettorali, almeno fin qui. Ed è significativo anche  che il centrosinistra, quando è diviso, non si stia ammazzando di botte da solo secondo la nota pratica del tafazzismo, ed è una buona premessa per il “dopo”.

Dunque, il segnale che dovrebbe venire da questa tornata elettorale del 3 e  4 ottobre  non riguarderà tanto gli assetti nazionali e alla fine nemmeno tanto i rapporti di forza interni alle coalizioni e ai singoli partiti ma qualcosa di molto più importante: il ritrovato primato della qualità contro la scommessa populista o peggio lo sberleffo antipolitico.

(da www.linchiesta.it - 8 settembre 2021)

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