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Chi costruirà l’infrastruttura politica del draghismo alle elezioni del 2023?

di Mario Lavia

Il bis di Sergio Mattarella sembra l’unica via d’uscita nel labirinto che conduce al Quirinale. Il nome di Mario Draghi non ha la stessa forza perché implicherebbe elezioni anticipate che com’è noto non sono graditissime ai parlamentari, specie quelli di prima nomina (il discorso qui vale soprattutto per i grillini) che maturerebbero la pensione a settembre del 2022 e vedrebbero questo obiettivo sfumare per pochi mesi. Dunque il presidente del Consiglio potrebbe non farcela, con figuraccia internazionale dell’Italia. Chiunque conosca il Parlamento (non solo questo Parlamento) sa che dire queste cose non è qualunquismo ma esporre un dato di realtà: come diceva Franco Marini, «la norma pensionistica è la vera Costituzione materiale».

Di certo il ricorso alle elezioni anticipate può solleticare al massimo una Giorgia Meloni in gran spolvero, finché regge ma molto meno Matteo Salvini, la cui stella al momento non brilla come un tempo e che tutto sommato al governo non si trova male. Del Movimento 5 stelle si è detto: la maggior parte di loro non tornerà mai più in Parlamento (anche grazie alla loro riforma sul taglio del numero dei parlamentari) e non è ancora chiaro nulla sulle reali volontà/capacità di Giuseppe Conte di guidare una barca senza bussola.

 

E il Partito democratico? Il Nazareno vuole Draghi fino al 2023 e vorrebbe dunque la riconferma di Mattarella, che gli appare l’unico in grado di coagulare un’amplissima maggioranza. L’altro nome che gira in questa fase, Pierferdinando Casini, incontrerebbe problemi seri nel M5s e in Liberi e Uguali ma anche in quella destra che non gli perdona la rottura con Berlusconi e l’avvicinamento progressivo al Pd e a Matteo Renzi che, si dice, sia il suo sponsor.

 

Se tutto questo verrà confermato e – questo poi è il punto vero – se Sergio Mattarella accetterà la rielezione, la legislatura proseguirà fino a scadenza naturale. Altrimenti è probabile un caos politico e istituzionale. Con persino il rischio di trovarci senza Mattarella e senza Draghi ai comandi del Paese.

 

È vero che il 2023 è tra un’era geologica ma è ugualmente vero che già ora si comincia a ragionare sul tipo di confronto elettorale che ci sarà. A destra le cose sono abbastanza chiare, una volta stabilito che in caso di vittoria l’incarico di formare il nuovo governo verrà chiesto al leader del partito più votato, mentre come al solito nel centrosinistra la situazione è completamente aperta. L’opzione per il Pd più scontata è quella, nel caso di vittoria, della richiesta al Capo dello Stato di un incarico a Enrico Letta: ma qui siamo nel campo della teoria.

 

Se, come più probabile, dalle urne emergesse la necessità di una nuova unità nazionale o comunque di un’alleanza di centrosinistra molto allargata, ecco che il Pd potrebbe riproporre il nome di Draghi. Ma sarebbe disponibile, quest’ultimo, a presiedere un governo di una parte politica dopo aver garantito l’unità nazionale? Probabilmente no. E certamente non vorrebbe guidare alle elezioni uno schieramento preciso. Non ha intenzione di fare il Mario Monti della situazione. Anche perché, se non adesso, fra x anni al Colle potrebbe salire lui, un Presidente fortissimo, quasi di tipo francese, di reale guida politica a che nel caso di una coabitazione all’italiana se a palazzo Chigi dovessero andare Meloni o Salvini.

Tutt’altra cosa – e su questo il dibattito in casa dem prima o poi è destinato ad aprirsi – sarebbe la scelta del Pd di darsi l’Agenda Draghi come piattaforma elettorale e fare del centrosinistra l’infrastruttura politica del draghismo senza peraltro tirare il presidente del Consiglio per la giacchetta: qui si tocca la corda sensibile della linea del Nazareno, un partito che ancora non ha scelto se sposare il pragmatismo riformista di Draghi, scontando una rottura con Conte, o spostare il suo asse a sinistra, come chiede una parte rilevante del gruppo dirigente, da Andrea Orlando a Peppe Provenzano. Su questo ci sarà una lotta politica interna che tra l’altro avrà effetti anche sulla composizione delle liste.

 

Nessun big per ora si azzarda a dar vita a una discussione, né Enrico Letta la sta sollecitando. Le due anime principali – la sinistra e Base riformista – tacciono, mentre colpisce il silenzio di Dario Franceschini, l’uomo le cui mosse condizionano moltissimo il Nazareno e che nei frangenti più delicati ha sempre una sua linea. È un silenzio politico che si trascina da mesi. Almeno da quando si è insediato a palazzo Chigi Mario Draghi, con il quale sembra essere davvero poco in sintonia, probabilmente perché Draghi oscura quel ruolo di regista politico che il ministro della Cultura aveva nel Conte bis. Forse è per questo che Franceschini da mesi non parla di politica.

 

(da www.linchiesta.it - 14 agosto 2021)

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