logo Fucinaidee

Giustizia, i tre successi dell'era Conte-Bonafede-Travaglio-Davigo che gettano ombre sulla riforma Cartabia

 

Di Tiziana Maiolo

 

I dazi pagati ai Cinque Stelle

 

Con lo strappo sulla prescrizione, la bandiera dei Cinque stelle è ormai lacera e si volta pagina dopo l’era Conte-Bonafede-Travaglio-Davigo. Il principio

è ormai demolito e non è un fatto simbolico. Ma stiamo attenti (nell’attesa che i cittadini dicano la loro con i referendum), perché a volte anche nel

cestino del miglior pescato può annidarsi un pesce che puzza. E nella riforma Cartabia-Draghi ce ne sono almeno tre.

 

D’accordo, comunque vada probabilmente non ci saranno più i processi eterni che volevano uccidere insieme gli imputati e le vittime. Il blocco alla prescrizione

dei governi Conte uno e Conte due è stato ormai rosicchiato, la strada è aperta per poter rispettare quella riduzione del 25% della durata media dei processi penali che da tempo ci chiede l’Europa. E che trova in Italia l’ostacolo di una Casta in toga che non pare arrossire davanti a questi numeri: dal 1959

a oggi, l’Italia è stata condannata per l’irragionevole durata dei processi 1.202 volte. Vogliamo sillabarlo insieme questo numero? Milleduecentodue volte.

Sul podio del disonore l’argento spetta alla Turchia (la Turchia!) con 608 richiami, cioè la metà. Bronzo alla Francia con 284 rimproveri, e poi piccole

tirate d’orecchi, 102 alla Germania, 30 alla Gran Bretagna e solo 16 alla Spagna.

 

Con questi chiari di luna della nostra storia ci sarebbero voluti più indulti e amnistie, che sono atti politici del Parlamento. Che i reati cadano in prescrizione

per pigrizia o incapacità dei magistrati è qualcosa che non piace a nessuno. Ma ancor meno convince quel che ha fatto l’ex ministro Bonafede, cioè far

pagare a due diverse categorie di vittime –gli imputati e le parti civili- l’inconcludenza dei suoi amici togati bloccando la prescrizione dopo il primo

grado di giudizio. Una vera bestemmia, già pizzicata anche di recente dalla Corte Costituzionale. Si è presto resa conto la ministra Cartabia di quanto

sia diverso governare il Paese rispetto all’emettere sentenze. Ha dovuto rapidamente trovare in sé la sapienza della tessitrice e mandar giù un bel po’

di nocciolini nel presentare la sua proposta, così come formulata dalla commissione Lattanzi, presieduta da un altro prestigioso ex Presidente della Corte

Costituzionale. Con un piccolo gioco verbale di prestigio ha spiegato che il suo problema non era la prescrizione (come a dire: mettiamo un attimo da parte

la parolaccia), ma la durata del processo. E se per ottenerne la riduzione del 25% si doveva anche toccare il mostro sacro, la bandiera identitaria di

qualcuno, ebbene lo strappo andava fatto. E così è stato. Ma hanno ragione anche gli esponenti di governo del Movimento cinque stelle a rivendicare i propri

successi. Se fossero un po’ più sensati, un po’ più colti e studiosi, sia Conte che Bonafede darebbero un occhio ad almeno tre tacche da mettere sul proprio

cinturone da cow boy.

 

La prima è la più politica, ed è stata da molti sottovalutata. La Commissione Lattanzi proponeva che ogni anno spettasse al Parlamento (che non è una scatola

di sardine da espugnare, come gridava Beppe Grillo nei suoi comizi, ma uno dei poteri dello Stato) dare gli indirizzi di politica giudiziaria sulle priorità

di indagine. Un principio sacrosanto che non avrebbe tolto il potere alla magistratura (semmai al singolo sostituto procuratore), ma avrebbe incrinato

l’imbroglio della finta obbligatorietà dell’azione penale. Un orpello tutto italiano in contraddizione con il sistema processuale accusatorio cui dovrebbe

far parte il nostro dalla riforma del 1989. La proposta è stata eliminata: decideranno ancora i procuratori e continueranno ad abusarne. Ed è molto grave

aver ceduto alla sub-cultura di coloro che in fondo il Parlamento lo disprezzano, insieme allo Stato di diritto.

 

Seconda questione, il mancato divieto al pm di ricorrere in appello contro la persona assolta con la sentenza di primo grado. Assistiamo ogni giorno a casi

di vera persecuzione, con pubblici ministeri che inseguono l’innocente fino in cassazione e addirittura alla corte costituzionale. Abbiamo sentito magistrati

imprecare contro coloro che l’avrebbero “fatta franca”. E questo mentre ben il 40% degli imputati rinviati a giudizio viene assolto proprio al processo

di primo grado?

 

La terza ferita (grave) ai principi dello Stato di diritto è anche quella più nota, quella già prevista nella tristemente famosa legge chiamata “spazzacorrotti”

invece che “spazzagiustizia”. E cioè l’equiparazione di alcuni reati contro il patrimonio, in particolare quelli contro la Pubblica Amministrazione, ai

più gravi reati contro la persona e a quelli commessi nell’ambito della criminalità organizzata. Che dire? Non crediamo che la ministra Cartabia e il presidente

Draghi, che molto si sono spesi per riuscire a portare in Parlamento la riforma della giustizia (e per questo li ringraziamo entrambi), possano pensare

di equiparare la mazzetta intascata dal vigile che controlla i mercati rionali al narcotraffico, agli omicidi e agli stupri. Pure, anche l’allungamento

dei termini per le sentenze di appello e cassazione per il reato di corruzione puzza come un pesce marcio che rischia di rendere immangiabile l’intero

pescato, cioè la riforma. Si può rimediare in Parlamento?

 

(da Il Riformista – 10 luglio 2021)

 

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina