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Commento introduttivo

In numerose occasioni ho affrontato il tema delle difficoltà che incontra chiunque, nel nostro Paese, voglia metter mano ad un vero disegno riformista; l’ultima impallinata è toccata a Renzi.

Infatti, mentre a parole non vi è chi fra gli italiani e fra le forze politiche che attualmente li rappresentano si dichiarino riformisti senza se e senza ma, nei fatti le cose stanno in modo diametralmente opposto. Tutti sono sì riformisti, purché non si tocchino i propri privilegi, prebende e/o rendite di posizione; tutti sono sì riformisti, purché a pagare l’eventuale  costo delle riforme siano sempre gli altri.

  E questo spiega il perché, aldilà del solito blablaloquio, in Italia non attecchisce una vera cultura riformista. Da noi il riformismo è per quasi tutti una medaglia da esibire, non una consapevolezza da seguire con coerenza.

IL riformismo, prima che un partito politico, deve essere una cultura ed una consapevolezza; deve essere un atteggiamento ed una predisposizione a mettere ed a mettersi in discussione; deve essere una disponibilità a qualche sacrificio nel presente, in favore di un disegno per il futuro che, ovviamente, occorre saper immaginare.

Deve altresì essere la consapevolezza che non si può salvare astrattamente tutto, e che quindi occorre compiere delle scelte, sulla base di un equilibrio che va ricercato e condiviso, nella convinzione che chi su questa terra pretende il paradiso negando il purgatorio, sicuramente avrà l’inferno.

Ed è proprio così che da noi, volendo essere giusti al massimo grado, inclusivi il più possibile, ambientalisti senza riserve, tutori assoluti del patrimonio culturale e via dicendo, ci ritroviamo una società in cui la giustizia perde ogni giorno fiducia, in cui la scuola si sta avvitando in una crisi senza fondo, il patrimonio culturale non raramente si trova nella più totale incuria, il dissesto idrogeologico è quasi ovunque, come tutti sapiamo.

  Ma ora il riformismo è chiamato ad un appuntamento da cui non potrà svicolare: una sfida che non potrà rinviare: è la sfida del Recovery Fund (più precisamente quella del  Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Sembra infatti proprio che le autorità europee vogliano fare sul serio nel condizionare l’erogazione dei fondi allo sviluppo dell’azione riformista.

In piena consapevolezza di ciò che sto per affermare, speriamo che tengano duro, visto che da soli gli italiani non ce la farebbero mai. Può darsi che condizionati da un fattore esterno, si riesca ad imboccare quella strada che da soli mai troveremmo il coraggio e la forza di imboccare.

 Ce la faremo a combattere le vecchie rendite di posizione, le corporazioni conservative, gli ambientalisti ottusi, i benecomunisti incalliti e i pm talebani?

 Questo non lo so. So tuttavia che se non ce la faremo, il riformismo perderà forse l’unica opportunità che gli viene offerta nella fase storica in cui stiamo vivendo, ed il Paese sarà inesorabilmente condannato ad una grave sbandata.

  I segnali di questi giorni non sono troppo incoraggianti. Da più parti giungono notizie di resistenze al cambiamento. Un esempio: pare che si stia consumando uno scontro fra il Ministero della transizione ecologica guidato da Roberto Cingolani (un tecnico) e quello dei Beni Culturali Guidato da Dario Franceschini (un politico); il contendere: Cingolani punta allo snellimento delle procedure, introducendo elementi di silenzio-assenso; Franceschini punta a tutelare gli attuali poteri (ivi comprese ovviamente le procedure) delle sovrintendenze, particolarmente per i pareri di impatto ambientale.

E’ chiaro che il tema delle soprintendenze si pone, al pari di quello di tante altre realtà che in questi decenni sono state autentici campioni del “veto”; e come se si pone in un vero disegno riformatore!!!

Paolo Razzuoli

 

Semplificazioni, non mediazioni. Occhio alla prossima partita di Draghi

 

Di CLAUDIO CERASA

 

Combattere le vecchie rendite di posizione, le corporazioni conservative, gli ambientalisti ottusi, i benecomunisti incalliti e i pm talebani. Come misurare il coraggio di Draghi nella sua prima sfida divisiva (e decisiva) 

 

Rendite, corporazioni, ambientalisti, soprintendenze, magistrati, giudici amministrativi, benecomunisti, campioni del veto: siamo pronti a rimettere in discussione tutto? Decisivo è un aggettivo solitamente molto abusato sulle pagine dei giornali e raramente ciò che viene descritto come decisivo alla fine si rivela come tale. Da anni, molti di noi sprecano energie per individuare “la settimana decisiva per le riforme”, per circoscrivere “le ore decisive di un leader”, per indicare “il passaggio decisivo per un partito”, salvo poi ricordarci tutti, un minuto dopo aver fissato il momento ultimo per la realizzazione di una qualche trama, che in Italia, quando si parla di riforme, come diceva Flaiano, di solito la linea più breve tra due punti è sempre l’arabesco.

 

La rivoluzione del Pnrr, acronimo orrendo che come sapete sta per Piano nazionale di ripresa e resilienza, è che, per la prima volta da molti anni a questa parte, il famoso “cronoprogramma”, presentato in passato con fortune alterne da diversi capi di governo, è qualcosa in più di una semplice promessa scritta sulla sabbia. Ed è legato a un contratto di ferro, a un patto di acciaio, che l’Italia ha firmato con la Commissione europea. Un patto che prevede un’unica e non indifferente clausola: i soldi stanziati dall’Europa per l’Italia (191 miliardi di euro) arriveranno solo a condizione che il nostro paese faccia ciò che ha promesso (le riforme) nei tempi promessi (il cronoprogramma). Nel caso specifico, il cronoprogramma  prevede, come recita la pagina 49 del Pnrr, che entro maggio 2021, ovvero entro undici giorni da oggi, l’Italia approverà, con un decreto legge, “gli interventi urgenti di semplificazione, non solo a carattere trasversale, ma anche settoriale”.

  

Finora, con intelligenza, il governo Draghi ha cercato di depoliticizzare questo passaggio, di renderlo il più possibile neutro, di sminare con tutte le forze il terreno di gioco. Niente polemiche, niente divisioni, niente chiacchiere. E la ragione la si capisce bene, perché il decreto “Semplificazioni” che prenderà vita probabilmente venerdì prossimo in Consiglio dei ministri (dovrebbe essere, ci dice un ministro, un decretone unico) costituisce un passaggio (che Flaiano ci perdoni) per una volta davvero decisivo per il futuro del governo. Non per misurare la sua capacità di rimanere a galla (figuriamoci) quanto per misurare la capacità di Draghi di passare dalla fase delle cose che non si potevano non fare (vaccinare di più) alla fase delle cose che non è scontato che si facciano (riformare). Dire semplificazioni significa ovviamente dire tutto e niente.

 

E così per provare a capire in che senso questa partita è semplicemente cruciale per il governo Draghi – e perché ogni mediazione, su questo terreno, coinciderà con un piccolo fallimento – vale la pena mettere insieme alcuni indizi raccolti in questi giorni per provare a inquadrare l’enormità della partita. Domanda: cosa dovremo monitorare nelle prossime ore per capire se il coraggio del governo sarà all’altezza della fama di Draghi? Proviamo a capirlo.

  

Per cominciare, la parola “semplificazioni” compare 136 volte nelle 266 pagine del Pnrr e per semplificazione si intende mettere in campo una serie di azioni convergenti finalizzate ad “accelerare attraverso interventi da realizzare in tempi rapidi le procedure direttamente collegate all’attuazione del Pnrr”. Tra le più importanti, da monitorare con attenzione, vale la pena segnalarne cinque.

 

Primo punto: intervenire sulle valutazioni ambientali in modo drastico, facendo  quello che ieri ha chiesto di fare sul Foglio il ministro Roberto Cingolani, ovverosia “inserendo all’interno di un’unica commissione i processi autorizzativi, la valutazione di impatto ambientale, le autorizzazioni paesaggistiche, per decidere tutto in un’unica occasione”.  

 

Secondo punto: sospendere a tempo indeterminato il codice appalti, semplificando le normative per le assegnazioni delle gare attraverso l’utilizzo di regole non diverse da quelle europee.

 

Terzo punto: intervenire sul fronte giudiziario, rendendo non più solo teoriche le depenalizzazioni sull’abuso d’ufficio e sul danno erariale, per contrastare l’ormai famosa fuga dalla firma.


Quarto punto: adottare una via più veloce per poter accedere ad agevolazioni come il cosiddetto Superbonus, snellendo le procedure ed evitando che una richiesta possa per esempio bloccarsi solo perché all’interno di un condominio vi sia un’irregolarità in un’unità immobiliare.

 

E soprattutto, quinto punto, intervenire sui vincoli delle soprintendenze e sui vincoli paesaggistici affinché venga conciliata la garanzia costituzionale della difesa del paesaggio con la necessità di accelerare le opere attraverso una svolta necessaria: prevedere il silenzio-assenso per tutte le (molte) fasi intermedie di un procedimento autorizzativo e riservando un’approvazione esplicita solo negli ultimi passaggi.

 

Semplificare non significa dare fuoco alle leggi inutili, ma significa mettere in campo tutta la forza possibile, tutta l’energia a disposizione, tutto il coraggio necessario per fare quello che negli ultimi venticinque anni la politica ha tentato di fare senza successo, finendo spesso travolta dalle sue stesse intenzioni: combattere le rendite di posizione, le corporazioni conservative, gli ambientalisti ottusi, le soprintendenze difensive, i magistrati talebani, i giudici ideologici, i benecomunisti incalliti e i campioni del veto. E per rimettere in discussione tutto oggi come non mai servono scelte, non mediazioni. Chissà che non sia la volta buona – stavamo per dire decisiva.

 

(da Il Foglio – 20 maggio 2021)

 

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