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La confusione strategica - Da Conte a Raggi, il Pd si è infilato (di nuovo) in un vicolo cieco

di Francesco Cundari

La posizione in cui il Partito democratico si presenta alle prossime elezioni amministrative, a cominciare da Roma, è a dir poco imbarazzante, ma non è, a ben vedere, una gran novità. Alle elezioni capitoline, e quasi certamente anche a Torino, il Pd si trova infatti nella strana condizione di chi deve sostenere la necessità di un cambiamento nell’amministrazione, senza però urtare troppo la suscettibilità degli amministratori uscenti (sia perché spera così di avere maggiori chance di conquistarne i voti al ballottaggio, sia perché la sua strategia nazionale, e nel Lazio persino regionale, è da tempo incentrata proprio sull’alleanza con il partito di chi, in città, vorrebbe mandare a casa). Il risultato è un vicolo cieco, in cui come si fa si sbaglia, e in cui di conseguenza, per non sbagliare, si finisce per non fare e non dire praticamente nulla. Che è, se ci pensate, esattamente la posizione in cui il Pd è incastrato dalla nascita del governo Draghi.

Anche qui, infatti, c’è un predecessore di cui non bisogna urtare troppo la suscettibilità, Giuseppe Conte, ma c’è al tempo stesso un successore di cui proprio Enrico Letta, appena insediato, aveva tentato di rivendicare la piena corrispondenza alla linea politica, ai principi e agli obiettivi del Partito democratico. Una scelta strategica naturale, per il Pd e prima ancora per Letta, che tuttavia proprio il neosegretario si è di fatto rassegnato a non portare avanti.

Perché la ragion d’essere del governo Draghi è una sola, si chiama uscita dall’emergenza pandemica e poggia su due gambe: la campagna di vaccinazione e il Recovery Plan. E su entrambe le cose, appena arrivato, il presidente del Consiglio non si è perso in questioni di galateo: per la campagna di vaccinazione ha allontanato il commissario-a-tutto scelto dal precedente esecutivo, Domenico Arcuri, senza nemmeno aspettarne la naturale scadenza (e mancava pure poco), sostituendolo subito con il generale Figliuolo (sempre sia lodato), mentre per i fondi europei ha largamente riscritto il Piano di ripresa e resilienza ereditato da Conte, avocandone la gestione a se stesso e ai ministri tecnici di sua più stretta fiducia.

Tralasciamo, per comodità di ragionamento, ogni giudizio di merito sui risultati conseguiti o attesi in entrambi i campi. Se l’obiettivo era convincere gli italiani del fatto che il governo Draghi fosse a tutti gli effetti «il governo del Pd», come disse Letta appena diventato segretario, sarebbe stato lecito attendersi, fosse anche solo per motivi di propaganda, un certo entusiasmo nel rivendicare e difendere quelle scelte e quei risultati, o no?

No. Anzi, tutto il contrario. Da buona parte del Pd, nel migliore dei casi, non si perde occasione per sottolineare che le scelte di Draghi non fanno altro che ricopiare quelle di Conte. Tralasciamo anche qui il merito dell’affermazione – falsa – e concentriamoci sul tono e sul significato politico che inevitabilmente assume, sulle labbra di chi la ripete (perlopiù, e comprensibilmente, esponenti del precedente governo, e sottogoverno, non riconfermati da Draghi). Come vogliamo definirlo? Diciamo che definirlo un appoggio particolarmente convinto appare arduo.

Se poi aggiungiamo a tutto questo le parole che Goffredo Bettini ha messo addirittura nel manifesto fondativo della sua corrente ( pardon: «area di pensiero plurale»), a proposito della «convergenza d’interessi nazionali e internazionali» che avrebbe determinato la caduta di Conte (e di conseguenza l’arrivo di Draghi), ebbene, ce n’è abbastanza per gettare la spugna. Tanto più che il primo a gettarla è stato proprio Letta, andando di persona (sia pure via zoom) a officiare l’iniziativa non-correntizia di Bettini, in cui la bislacca teoria è stata più volte ripetuta (sempre spiegando, ovviamente, che giammai si era parlato di «complotto», bensì di «convergenza d’interessi», eccetera eccetera).

E così, probabilmente più per inerzia che per intenzione, Letta si è ritrovato impastoiato nelle stesse contraddizioni che avevano paralizzato l’iniziativa del Pd durante il secondo governo Conte, per la stessa ragione di fondo. Vale a dire il desiderio di non irritare i grillini, da parte loro fermamente intenzionati a difendere anche le scelte più indifendibili compiute in precedenza. Di conseguenza il Pd ha rinunciato di fatto a qualunque battaglia politica di merito, a viso aperto, per dare un vero segnale di svolta rispetto alla tragica eredità delle amministrazioni precedenti: che si trattasse del primo governo Conte o del primo mandato di Virginia Raggi.

E così è facile prevedere che continuerà a non-fare e a non-dire, per esempio sulla giustizia, tema su cui già si annunciano le prossime barricate del Movimento 5 stelle. Ancora una volta, tra le posizioni garantiste di Marta Cartabia e quelle giustizialiste di Alfonso Bonafede, il Pd bofonchierà qualcosa di incomprensibile, tentando di non scontentare nessuno (nella migliore delle ipotesi, cioè nel fortunato caso in cui non si accodi ancora una volta a Bonafede). E così andrà anche su tutto il resto, com’è andata sin qui su prescrizione, Ilva, quota cento, porti chiusi e via biascicando. Trasformando definitivamente quello che avrebbe dovuto essere un partito della sinistra riformista nel suo esatto contrario: un incolore e incomprensibile cartello del Ni.

(da www.linchiesta.it - 13 maggio 2021)

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