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Ecco il partito degli influencer

di Massimiliano Panarari

Un nuovo soggetto politico s'aggira per l'Italia.
L'antitesi dello spettro di marxiana memoria, perché questo è invece visibilissimo e alla luce del sole (e degli schermi). E' il "partito degli influencer", di cui abbiamo assistito a un embrione (e a uno "statuto") nel discorso di Fedez durante il concertone del Primo maggio.

E che abbiamo visto alimentarsi di potenziali consensi nel dibattito oceanico immediatamente accesosi sui social, come pure sui giornali e in tv. Un'autentica convergenza crossmediale che, naturalmente, è una delle specificità (e dei core businesses sotto il profilo professionale) degli influencer. Specie se il Parlamento attribuirà prossimamente il diritto di voto ai sedicenni, innescando la caccia al voto di coloro che compongono il popolo dei loro seguaci.

Da alcuni tiktoker sino alla power couple dei Ferragnez (che rende "i Clintons" una sorta di archeologia analogica del potere) non è più solo un immaginario (pluri)generazionale a muoversi al ritmo dei suoni e delle parole degli influencer del web. Nel vuoto lasciato da tanta parte della politica – destinato per una ferrea legge sociale a venire occupato da qualcun altro – e in un'esistenza che si è fatta totalmente onlife, gli influencer – per dirla come il sociologo americano Paul Lazarsfeld – da "influenti specifici" (apprezzati nei loro settori) si sono convertiti in "influenti generali", considerati come autorevoli in assoluto e in tutti i campi.
Dalla loro, inoltre, gli influencer hanno una virtù prepolitica fondamentale, quella di risultare "sinceri" (o di essere percepiti come tali, dal momento che la reputation digitale rappresenta uno degli ambiti più straordinariamente costruiti e artificiali), mentre alla politica da tantissimi non viene più riconosciuto alcun magistero morale.
E, difatti, essi svolgono un ruolo (che, in taluni casi, si rivela prezioso ed encomiabile) soprattutto sul terreno dei diritti civili, rispetto a cui la politica viene giudicata da molti troppo compromissoria e pronta a negoziare sui valori.

Complice anche lo spirito dei tempi populista che continua ad aleggiare, la politica ha finito per adottare il paradigma della following leadership, e si è messa a rimorchio. A seguire la "gente", nel nome dell'orizzontalizzazione e della disintermediazione. Oppure a inseguire inedite figure di riferimento: come, giustappunto, certi influencer, al punto che nelle scorse ore nel centrosinistra è scattata la corsa a congratularsi con Fedez. E, sulla sponda opposta, Matteo Salvini che, d'abitudine, sarebbe partito lancia in resta per demolire l'antagonista, ha rivolto al rapper un morigeratissimo invito a prendere insieme un caffè "per parlare". E' la legge dei grandi numeri (di follower), per la quale i Ferragnez costituiscono un'inarrivabile superpotenza che cumula 36 milioni di fan (vale a dire, più della somma degli elettori dei due partiti della maggioranza di governo).

E in una classe politica che, sin dagli esordi della mediatizzazione televisiva, ha interiorizzato l'equazione (tutt'altro che esatta) tra popolarità e consenso, è scattato subito il riflesso pavloviano.
Le community dei followers, però, a differenza di quelle politiche, sono istantanee e intermittenti, e l'engagement sul web ha una natura alquanto differente dall'impegno politico propriamente detto.

Come scrivevano un decennio fa i sociologi Guido Gili e Fausto Colombo, la credibilità è una relazione, e consiste nella probabilità di essere creduti.
La politica ha visto la sua percentuale in materia diminuire senza sosta, mentre è via via aumentata quella di altri attori sociali – e, al riguardo, non aiuta di sicuro il surreale reality dei dirigenti di partito "turisti per caso" che si dicono indignati da censure e lottizzazioni nella tv di Stato.

Quando, dalla seconda metà degli anni Sessanta, alcuni esponenti dello show business hanno cominciato a diventare testimonial di cause umanitarie, esisteva una politica organizzata che sapeva essere fortemente "influencer" dei destini collettivi (anche direttamente sul piano materiale). Poi sono arrivati lo storytelling e l'autorappresentazione che, tuttavia, non sostituiscono affatto la rappresentanza sociale. E, quindi, invece di limitarsi ad applaudire gli influencer che al brand activism affiancano l'attivismo civile, o i ceo delle corporation che intervengono direttamente nell'arena pubblica, bisognerebbe correre ai ripari ripensando la propria funzione. Perché, nei fatti, il partito degli influencer segna un ulteriore passo nella direzione della delegittimazione di una certa classe politica spasmodicamente in cerca d'autore (e di qualche storia da riraccontare).

(da La Stampa - 4 maggio 2021)

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