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Dai gilet gialli al Nazareno - Il surreale incontro tra il giustizialista Di Maio e i socialisti europei

di Mario Lavia

Nemmeno Alexander Dumas padre, o uno sceneggiatore di Steven Spielberg, avrebbero saputo imbastire una storia così: 30 anni dopo l’assalto manettaro a base di monetine a Bettino Craxi , segretario del Partito socialista italiano, uno degli epigoni di quella subcultura, l’attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio, parteciperà lunedì a un incontro della famiglia socialista europea che appunto fu la casa di Bettino. Oggi il ministro non scaglierebbe monetine, è diventato in uomo di mondo: sebbene mai abbia rinnegato alcunché della sua educazione sentimentale. Questo è il punto. Il giustizialismo torna dunque fuori dalla lampada di un Aladino che sbeffeggia la storia in un paradossale embrassons-nous fra il Diavolo e il Buon Dio, come quel titolo di Sartre, in un’operazione che ha politicamente qualcosa di macabro, almeno per chi conosca un pochino i fatti.

E dunque il Partito democratico ha pensato di officiare lunedì mattina a casa sua una grossa riunione politica buona tra l’altro per far incontrare sulla splendida terrazza nazarena i capi del Partito socialista europeo e l’ex leader di quel Movimento 5 stelle che dopo le europee cercò invano casa nel gruppo xenofobo e antieuropeista di Nigel Farage e che da mesi brancola fra i corridoi del Parlamento europeo alla caccia di un gruppo che se lo raccatti. Niente fascisti, niente verdi, niente liberali: proviamo con i socialisti, grazie al fatto che il Pd ne è autorevole membro, per volontà – tu guarda l’ironia della storia – del reprobo dei reprobi Matteo Renzi.

Ora, va bene tutto. Ma che il socialismo europeo possa diventare un hotel dalle porte girevoli buono per ogni questuante mette tristezza a chi ricorda la stagione del grande socialismo continentale, quello del Nord (la Svezia di Olof Palme, poi il Regno Unito di Tony Blair), quello centrale (la Germania di Willy Brandt e poi Helmut Schmidt e Gerhard Schröeder, l’Austria di Bruno Kreisky), quello mediterraneo (Craxi, Felipe Gonzales, François Mitterrand, Mario Soares, Andreas Papandreu), cui gradualmente e faticosamente si avvicinò Enrico Berlinguer con la spinta di Giorgio Napolitano, su su fino all’ingresso senza abiure ma con quanta fatica.

 

Appunto, la fatica della politica oggi pare sconosciuta ai suoi attori. Con la scusa che l’endiadi destra-sinistra mostra crepe, qui ognuno fa quello che gli pare con la disinvoltura del ladro che avanza a passi felpati, e nessuno dice niente, anzi, si battono pure le mani al Di Maio “teorico” (sic) dell’antipolitica sulla cui onda entrò in Parlamento e addirittura al governo, ed eccolo, Di Maio – dicevamo – ospite di Hans Timmermans, il socialista olandese già candidato per il Pse a presidente della Commissione europea e oggi vicepresidente della medesima, di David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo e stimatissima figura del Pd, e ci saranno anche Paolo Gentiloni e Romano Prodi, il massimo dell’europeismo, nonché ovviamente il segretario dem Enrico Letta: una bella foto di famiglia allargata all’uomo che una sera si affacciò dal balcone di palazzo Chigi, le vene gonfie, ad annunciare la fine della povertà, l’accusatore del partito di Bibbiano, il figlioccio politico del davighismo con le manette sul comodino, il grillino dal volto umano sceso dai tetti di Montecitorio una volta compreso che si stava molto meglio dentro la scatoletta che fuori.

E il socialismo europeo che c’entra? Niente. Se non fosse per il fatto un pochino inquietante che sudando copiosamente nel corpo a corpo con il sovranismo la sinistra ha anch’essa bisogno di qualche zolletta di zucchero, e poco importa se impastata del fiele antipolitico grillesco. A Bruxelles un po’ di voti servono eccome, e la ragion pratica pensata da Kant si riduce qui a mera convenienza, a maggior ragione se l’operazione “aggancia Di Maio” in chiave europea può essere un’ottima interfaccia della sfinente alleanza strategica in salsa italiana, dove per la prima volta nella storia compare l’idea di un’alleanza con una cosa che non esiste: giacché nessuno – meno che mai Conte, come si è visto all’incontro organizzato da Goffredo Bettini, il generale Kutuzov della strategia dem – è in grado di spiegare cosa sono questi grillini post Grillo, cosa vogliono, dove si collocano (né destra né sinistra? E allora cosa vogliono dai socialisti?).

 

Dice il verbo del Nazareno che i Cinquestelle sono tanto cambiati in questi anni, per esempio proprio sui temi europei. Sono cresciuti. Ed è anche vero, ma con quale coscienza di sé? Oggi sono nel governo del campione dell’Europa Mario Draghi mentre solo due anni fa Di Maio e Alessandro Di Battista, all’epoca sodali, incontravano in Provenza, non lontano dal cimitero che ospita Albert Camus, un meccanico di nome Christophe Chalençon, uno che teorizzava un colpo di Stato contro Emmanuel Macron prevedendo che «all’inizio di gennaio andremo alla guerra civile».

In mezzo ci sono stati decreti Salvini e navigator e toninellismi a go-go, infine un riposizionamento ma senza la fatica del ripensamento, senza non diciamo un’autocritica  (quella è roba da comunisti!), ma neppure una Bad Godesberg e nemmeno una call su Zoom, un convegnuccio, un saggio, una lunga intervista.
Niente di niente, perché nella politica senz’anima di questa stagione il viaggio grillino fra fascisti e socialisti è gratis: nel mondo socialista una volta tutto questo si sarebbe chiamato opportunismo, un’accusa gravissima perché politica e morale insieme. Ma tanto cosa conta, oramai.

(da www.linchiesta.it - 2 maggio 2021)

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