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Avvisare Bettini - Con la scissione grillina, Conte è tornato il punto di riferimento di tutti i populisti

di Francesco Cundari

C’è un aspetto particolarmente surreale nel dibattito pre, proto o para congressuale che in questi giorni anima il Partito democratico, a proposito del rapporto con il Movimento 5 stelle e della leadership di Giuseppe Conte. E sta nel fatto che Goffredo Bettini e i suoi compagni di corrente sembrano non essersi accorti di quanto è accaduto in quel campo dopo la nascita del governo Draghi. O per essere più precisi, sembrano non essersi accorti del fatto che nel frattempo l’Avvocato del Popolo ha cambiato campo. Di nuovo.

A dare la misura del testacoda logico, prima che ideologico, basterebbe riepilogare la grottesca vicenda dell’intergruppo parlamentare Pd-M5s-Leu. Iniziativa nata martedì al Senato e defunta mercoledì alla Camera, durante l’apposita riunione dei deputati democratici che ha deciso di accantonare il progetto, al termine di un duro scontro interno, abbondantemente tracimato anche sui social network. Un particolare che rende poco credibile la versione di Nicola Zingaretti e dello stesso Bettini, i quali si sono detti pressoché ignari di tutto e hanno lasciato intendere che si trattasse di un colpo di testa del capogruppo al Senato, Andrea Marcucci, buon amico di Matteo Renzi. Dimenticando, ed è il secondo particolare che non quadra nella loro versione, che il primo a sposare pubblicamente l’iniziativa era stato Conte.

Prendiamo per esempio quanto scriveva a caldo il quotidiano senza dubbio più vicino all’ex presidente del Consiglio. «Per chi si aspettava un segnale dal presidente del Consiglio dimissionario – si legge il 16 febbraio sulle pagine online del Fatto quotidiano – è arrivato proprio alla vigilia del primo voto di fiducia al governo Draghi in Senato. Anzi i segnali sono stati due: prima l’annuncio della nascita dell’intergruppo a Palazzo Madama, poi l’intervento dello stesso Giuseppe Conte. Che parlando già da leader in pectore della coalizione ha definito l’iniziativa “giusta e opportuna”».

Resta un mistero come si possa contemporaneamente disconoscere del tutto l’operazione, insinuando addirittura che sarebbe stata una provocazione renziana, e glissare sul sigillo che l’ex presidente del Consiglio (Giuseppe Cohnte ndr) in persona vi aveva apposto pubblicamente, spingendo i giornali a parlarne come dell’atto di nascita del suo partito (ed era già la seconda volta, dopo il precedente flop della candidatura alle suppletive di Siena).

L’impressione è che i sostenitori dell’alleanza giallorossa e di Conte quale «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste» siano ormai in piena fase della negazione e non vogliano accettare l’evidenza. E cioè che il loro amatissimo Avvocato del Popolo ha fatto di tutto per far saltare la nascita del governo Draghi, come raccontato ai giornali dal «costruttore» Andrea Causin, destinatario di una telefonata in cui Conte lo esortava a tenere duro, assicurandogli che i grillini non avrebbero votato la fiducia all’ex presidente della Banca centrale europea.
Dopodiché, con il maldestro tentativo dell’intergruppo, ha aperto una faglia evidente nella nuova maggioranza. Tanto evidente da far perdere la pazienza, a quanto si racconta, anche a Palazzo Chigi. Di qui l’ancor più goffa ritirata di Zingaretti e Bettini, che si ostinano tuttavia a disegnare un’alleanza, a questo punto, non si capisce bene nemmeno con chi, vista la spaccatura e il rimescolamento di carte in corso nella galassia grillina.

Bastava aprire il Fatto quotidiano di ieri per averne ampia documentazione. Dal titolo di apertura, «I 5Stelle cacciano chi è fedele ai 5Stelle», all’editoriale di Marco Travaglio, «Movimento 5Sedie». Senza dimenticare l’intervista all’intellettuale di riferimento del contismo, Andrea Scanzi, che a proposito della scelta di espellere i dissidenti scandisce: «Mancava solo questa, da mesi i vertici non ne azzeccano più una».

Attenzione, Travaglio e Scanzi sono gli stessi che alle ultime regionali avevano scomunicato senza appello i contrari all’alleanza con il Pd. Peraltro, in gran parte, gli stessi che oggi difendono. Ma allora l’alleanza coincideva con la maggioranza parlamentare, e a Palazzo Chigi stava Conte, non Draghi.

Oggi infatti è proprio a Conte e al suo governo, vittime dell’odiatissimo Renzi, che si richiamano i ribelli, i quali paradossalmente si trovano di fronte a un problema pratico simile a quello incontrato da lui al momento di fondare Italia viva: la necessità di trovare un simbolo già presentato alle elezioni per poter formare un gruppo parlamentare autonomo. Di qui le voci sull’imminente riesumazione – tenetevi forte – dell’Italia dei Valori (per i lettori più giovani: una sorta di Movimento 5 stelle uno punto zero, fondato dall’ex pubblico ministero di Mani Pulite Antonio Di Pietro).

L’operazione Italia dei Valori Viva ha ovviamente il pieno sostegno di Alessandro Di Battista, tra i primi a schierarsi sulla linea di difesa irriducibile delle posizioni populiste e sovraniste del movimento delle origini, naturalmente in nome (e forse anche per conto) del presidente del Consiglio (Giuseppe Conte ndr) proditoriamente defenestrato. E magari in attesa di ricongiungersi con un altro vecchio compagno di strada come Gianluigi Paragone, fondatore di Italexit. A conferma del fatto che alle fesserie sull’evoluzione europeista, democratica e progressista di Conte e della galassia grillina, al momento, sembrano credere solo Zingaretti e Bettini. Ammesso che ci credano.

(da www.linchiesta.it - 20 febbraio 2021)

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