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Commento introduttivo

La pandemia coronavirus ha portato prepotentemente alla ribalta il tema delle attività a distanza, o come più comunemente  si dice “online”.  

Sono ormai anni che, soprattutto in certe realtà, questa modalità di lavoro veniva praticata, ed erano stati creati i necessari strumenti. Per fortuna; perché la pandemia ha richiesto decisioni rapidissime, che non sarebbero state possibili se non avvalendosi di mezzi già esistenti e testati. E’ così, ad esempio, che piattaforme quali Zoom, di cui quasi nessuno aveva sentito parlare sino a pochi mesi fa, sono divenute ad un tratto popolarissime.

Con  il confinamento si è reso necessario fare di tutto a distanza: dagli incontri di lavoro a iniziative culturali, dalle riunioni di condominio all’attività didattica. Ed è proprio quest’ultima, adottata in modo generalizzato (ovviamente con le inevitabili differenziazioni in base agli ordini scolastici), che ha creato il dibattito più acceso. Non che prima della pandemia non siano state realizzate esperienze di didattica a distanza, ma tali esperienze hanno riguardato la formazione universitaria e/o post universitaria, o esperienze di formazione professionale soprattutto in ambito aziendale. La pandemia ha però costretto l’intero mondo scolastico ad avvalersi di questa nuova modalità, con le conseguenze facilmente immaginabili.

Al di là di valutazioni legate all’emergenza, si è acceso un dibattito che ha, di sovente, assunto la connotazione purtroppo sempre più frequente: quella dello scontro di infatuazioni ideologiche, somiglianti più a tifoserie da stadio che non a dibattiti pacati, nei quali i vari termini del problema vengano ponderati con la necessaria lucidità e razionalità.

E così, a voci permeate da un entusiasmo acritico che individua nella didattica a distanza la frontiera futura dell’educazione, si contrappongono posizioni che la demonizzano, come il colpo di grazia che porterà a morte sicura  la nostra scuola.

Premesso che la nostra scuola sta vivendo un decadimento preoccupante (le cui radici sono antiche e nulla hanno a che fare con il coronavirus o con la DAD), il tema della didattica a distanza, al di là dell’emergenza in cui è emerso all’attenzione di tutti, merita una riflessione pacata, senza posizioni ideologiche, al fine di comprendere i contesti in cui può o non può risultare utile.

Non servono scontri su posizioni di principio; serve un confronto serio che individui nelle piattaforme di comunicazione a distanza, al pari di ogni altro strumento, gli ambiti in cui possono ampliare le opportunità per tutti di migliorare il proprio patrimonio formativo e culturale. Consentitemi solo un esempio: quello dell’educazione permanente. 

  IL testo che Fucinaidee propone ai suoi lettori, mi sembra offra utili elementi di riflessione. E’ un po’ complesso, ma “non si possono trattare sempre in modo facile i temi difficili”. 

Paolo Razzuoli

 

Didattica in aula vs. didattica a distanza

 

Di Michelangelo Zaccarello - Università degli Studi di  Pisa

 

Un déja-vu del dibattito libro cartaceo vs. e-book?

 

Giorni fa, ha destato clamore un’intervista a Carlo Ratti, direttore del Senseable city lab del Massachusetts Institute of Technology (il famoso Mit), che ha definito “dinosauri” le università attuali, auspicandone la necessaria, imminente scomparsa. Nonostante le innegabili eccellenze espresse a livello globale, per Ratti «tutto potrebbe essere fatto meglio in rete»

e le «grandi (sic) lezioni frontali in cui un professore parla e i ragazzi ascoltano possono essere condotte via Zoom o pre-registrate».

  Si potrebbe facilmente osservare che chi afferma queste cose ha evidentemente un’idea molto vaga della didattica in aula e della relativa, variegata interazione (non solo verbale:

gli esempi vanno dalla actio dell’oratoria ciceroniana alla coralità dell’esperienza seminariale). Ma non è stata questa la mia prima reazione: ho pensato

subito alla roboante iconoclastia di chi, agli inizi del nuovo millennio, preconizzava la necessaria scomparsa dei capisaldi della cultura e dell’insegnamento

tradizionale, a cominciare dal suo oggetto simbolo, il libro cartaceo, ma arrivando presto a smantellarne l’impianto, simboleggiato dal canone degli autori

“classici” di una data letteratura. Queste oscure profezie sull’imminente tramonto del libro come lo abbiamo sempre inteso, che andavano di pari passo

con la consapevolezza di essere a un punto di svolta – o di “non ritorno” – nell’evoluzione stessa degli studi umanistici, ai quali la rivoluzione digitale

prometteva un ruolo di maggiore rilievo nella cultura e nella società, richiedendo al contempo una decisa discontinuità con strumenti e metodi del passato:

se digital humanists come Jeffrey Schnapp vedevano l’avvento del digitale come l’opportunità di dare una svolta decisiva agli studi umanistici, e dunque

di rivoluzionare la gerarchia delle attività intellettuali (Digital Humanities, Mit Press, 2012, p. vii). Una maggiore centralità dell’ambito umanistico, sembra di capire, è attingibile solo con l’allargamento di quest’ultimo ben al di fuori dei tradizionali oggetti di studio e di edizione (e dunque per cominciare oltre il ristretto canone degli autori classici della nostra letteratura). L’urgenza di questa rivoluzione è alimentata dal rapido progresso tecnologico, che impone un forzato ricambio di qualunque cosa non sia “aggiornata” e “attuale”: come ha ben scritto Adam Kirsch, la propaganda di questi studi usa un linguaggio non dissimile dal marketing della Apple, minacciando i dubbiosi di obsolescenza e inattualità storica (Technology is taking over

English Departments, 2014, leggibile sul sito newrepublic.com). Su questo lato dell’Oceano simili entusiasmi hanno avuto corso più limitato e hanno invocato

esiti meno rivoluzionari della svolta verso la circolazione digitale dei testi. In Italia le case editrici non hanno affatto cavalcato l’onda della “smaterializzazione” delle opere dell’ingegno, anzi hanno spesso dato l’impressione di voler difendere l’assetto tradizionale del loro mercato, imperniato sul libro cartaceo.

In questo campo, le rapide mutazioni sono state attentamente monitorate, tanto sul versante tecnologico quanto nelle abitudini del pubblico, e hanno suggerito

affermazioni più realistiche, quando non un certo grado di scetticismo. Persino un pioniere dell’e-book come Marco Calvo ha da tempo notato come le varie forme della lettura restino saldamente ancorate al tradizionale volume, la cui struttura e funzionalità resiste immutata da quasi duemila anni (Internet 2004. Manuale per l’uso della rete, Laterza, 2003, pp. 293-294). Oltre un decennio dopo, si prende atto della limitata diffusione dell’e-book, pure finalmente

allineato all’IVA 4% dei corrispondenti cartacei (la decisione italiana, del 2015, è stata avallata dall’Ecofin solo nell’ottobre di due anni fa), presso

l’utenza e se ne denuncia, con analogo sbilanciamento, una

prossima eclissi. Sono molti i fattori culturali che spingono verso questa “rivincita dell’analogico”, per citare il titolo di uno stimolante libro del giornalista David Sax (2016), che mette il potente ritorno di questa ricerca di un “rapporto” materiale con la letteratura e la musica con la gioia della creazione e del possesso, che può riconoscersi anche nella potente risalita delle produzioni e vendite della musica in vinile o della fotografia formato Polaroid. In realtà,

tuttavia, sembra ormai inevitabile ammettere che la contrapposizione frontale dei due media quale è stata impostata da fine anni Novanta non ha ragione d’essere. Se nei bilanci delle case editrici i testi elettronici pesano ancora molto poco, bisogna ormai denunciare per gli e-book un grave problema di durevolezza e stabilità: per formati le cui modalità di archiviazione e codifica sono soggette a rapido mutamento, anche l’obsolescenza e vulnerabilità

tecnologica dei libri digitali ha un peso notevole in questa generale diffidenza: oggi possiamo leggere benissimo manufatti antichi di millenni, ma il

funzionamento e la leggibilità degli e-book

 è instabile anche a distanza di pochi anni. Eppure con i testi elettronici si possono fare molte cose. Adattabili a ogni dispositivo, “leggeri” e versatili, essi permettono ricerche testuali o tematiche ormai molto raffinate: nessuno potrebbe oggi negare che uno spazio specifico e ben delineato si è aperto per i due formati del libro moderno, e che fra essi si è ormai profilata con chiarezza una pacifica convivenza, con la preferenza degli utenti guidata

da considerazioni di metodo e finalità della lettura.

 

Alimentato dall’emergenza sanitaria, il dibattito sull’insegnamento — in aula o affidato al medium digitale — è molto più recente, ma ripercorre le linee ormai familiari del dibattito fra gli apocalittici e gli integrati, ben delineato da Umberto Eco nel libro eponimo del 1964: vi si parlava della tv, ma

l’avvento del medium digitale ha fatto apparire quelle pagine sempre più profetiche, a partire dalle alterne vicende dell’e-book. Ebbene, non sarei sorpreso

se da queste ultime potessimo già farci un’idea di come andrà a finire fra qualche anno lo scontro fra sostenitori e oppositori delle piattaforme digitali

per l’insegnamento: smantellata l’euforia di quanti vedono un futuro dominato dalla didattica a distanza, sarà inevitabile che quest’ultima conquisti uno

spazio – specifico e qualificato – per alcuni aspetti dell’interazione fra studenti e discenti. È facile prevedere che ogni livello dell’istruzione scolastica

e universitaria possa beneficiare dal sostegno di questo tipo di mezzi, specie se verranno sviluppate soluzioni dedicate ai singoli ambiti, ma è abbastanza

scontato che – come il libro cartaceo – la tradizionale esperienza della didattica in aula ne uscirà rafforzata nella sua centralità.

 

(dalla rivista Il Mulino – 6 giugno 2020)

 

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