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Fase Due, tra Babele e Bisanzio

di Massimo Giannini

Ammettiamolo: la prima settimana della Fase Due è stata un discreto pasticcio. Non che gli italiani si aspettassero miracoli, reduci da una Fase Uno non meno confusa e assai più dolorosa. Ma insomma, poteva e doveva andare meglio. E invece.

Sul fronte politico, solita cacofonia di divieti e raccomandazioni, ordinanze e impugnazioni.
Sul fronte scientifico, solita litania di epidemiologi e virologi, infettivologi e immunologi.
Sul fronte economico, solita moria di posti di lavoro e di aziende, esercizi commerciali e studi professionali.
In mezzo, i cittadini sempre più preoccupati e disorientati.
E soprattutto, nell'entropia generata dalla pandemia, lasciati soli di fronte a un tipo nuovo di etica della responsabilità. Come scrive Rachel Donadio su "The Atlantic", i governi continueranno ad emanare direttive sanitarie e a decidere come e dove riaprire i negozi e le scuole, ma milioni di persone dovranno prendere milioni di decisioni piccole e grandi su come condurre la propria esistenza quotidiana, trovando un equilibrio tra l'accettazione del rischio, la serenità mentale e la necessità di un reddito.

E' una scelta morale difficilissima: la riattivazione della libertà porta alla ripresa epidemica, la restrizione della libertà porta alla rovina economica.
Un dilemma di questa portata può ricadere sulle spalle degli individui, delle famiglie, delle imprese? Dobbiamo abituarci a risolvere in totale autonomia questa equazione, cercando solo nella nostra coscienza il giusto bilanciamento tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro? E' davvero impossibile esigere dal decisore politico, si tratti dello Stato o delle regioni, un sistema minimo di regole chiare e condivise, che non scarichi sui singoli il peso della scelta?

E' come se le classi dirigenti, nella moltiplicazione e nella dispersione dei livelli decisionali, avessero costruito un meccanismo per auto-deresponsabilizzarsi.
Se il virus arretra, il merito è dell'autorità. Se il virus avanza, la colpa è della società. Il paradigma è l'aperitivo di massa sui Navigli.

Dopo due mesi di clausura forzata, dopo una sequela di annunci e contro-annunci sulla ripartenza, dopo una sarabanda di esegesi giuridiche sui "congiunti" e di sedute psicanalitiche sugli "affetti stabili", si fissa il 4 maggio come prima tappa per l'uscita dal lockdown. Dal giorno dopo riparte più massiccia che mai la consueta gara tra enti locali, che giocano a chi riapre di più: io i bar e i ristoranti, io i parrucchieri e gli estetisti, io i parchi e i giardinetti, e chi più ne ha più ne metta.
In questa rincorsa liberatoria, qualche decina di giovani milanesi che dopo cento giorni si ritrovano per uno spritz era il minimo che ci si potesse aspettare.
Hanno sbagliato, d'accordo, e Beppe Sala fa bene ad arrabbiarsi: ma erigerli sul Web a untori 4.0, capaci di mettere a repentaglio la sicurezza nazionale, è solo un diversivo.

Un modo per non affrontare la questione vera della Fase Due, che purtroppo resta sempre la stessa. Chi ci governa sa dove ci sta portando? Che Italia sarà, durante e dopo il coronavirus?
Spiace dirlo, ma le risposte non confortano. Dal premier Conte ci aspetteremmo scelte politiche chiare e forti: non banali consigli da psicologo della domenica su come gestire le nostre paure. Dai ministri ci aspetteremmo decisioni coerenti e cogenti: non le incertezze di Bonafede sulle scarcerazioni dei mafiosi e le vaghezze di Gualtieri sul decreto aprile-che-diventa-maggio, non le sbandate cino-russe di Di Maio denunciate dal segretario alla Difesa Usa e le sparate di Azzolina sul calendario scolastico, non le sortite della Catalfo sull'orario di lavoro e le bufale della Pisano sulla app Immuni.
Dalla maggioranza giallorossa ci aspetteremmo una visione e un'idea di Paese: non il wrestling quotidiano tra renziani, piddini e pentastellati, e neanche le sistematiche mediazioni al ribasso sul Mes e sulla gestione degli aiuti europei, sulle misure per il sostegno del reddito e sulla regolarizzazione dei migranti ridotti in schiavitù nelle nostre campagne.
Dall'opposizione sovranista ci aspetteremmo proposte realistiche e una seria alternativa di governo: non le proteste digitali di Salvini (cui non basta un paio di occhiali per apparire più competente), non le piazzate in mascherina di Meloni (cui non basta un tailleur per risultare più rassicurante).

L'Italia è in bilico. Il Pil crolla del 10% a fine anno, 11 milioni di lavoratori sono fermi, le file al Monte dei Pegni aumentano del 30%. La politica replica con 763 atti legislativi e amministrativi in meno di due mesi, un piano di aiuti da 55 miliardi che slitta di settimana in settimana, un decreto liquidità sui prestiti garantiti dalle banche che prometteva una "leva" da 400 miliardi e invece ne ha movimentati meno di 5, un'agenda degli adempimenti fiscali affidata al fai-da-te dei comuni, un finanziamento della cassa integrazione in deroga che tuttora taglia fuori oltre 3 milioni di dipendenti, un bonus da 600 euro che è arrivato sul conto di una sola metà dei 3,5 milioni di autonomi previsti.
Iperproduzione normativa, superfetazione burocratica: la Fase Due langue tra Babele e Bisanzio. E' questa rugginosa paralisi del sistema che esaspera gli italiani, non il lockdown in sé. La chiusura parziale può durare anche mesi, ma a una sola condizione: che nel frattempo la macchina dei sussidi alle famiglie e alle imprese funzioni a pieno regime. Solo così il fermo produttivo diventa sopportabile. Ma è esattamente questo che non sta succedendo. La macchina gira a vuoto, la popolazione non ha risorse, e così il collasso economico può far esplodere il conflitto sociale. E' materia delicata, da maneggiare con cura e cautela. La repressione ottusa rischia di essere benzina sul fuoco (come è successo all'Arco della Pace di Milano, dove un centinaio di ristoratori disperati hanno manifestato civilmente sedendosi sulle loro sedie e mantenendo persino il distanziamento di legge, e ciononostante sono stati multati dai vigili urbani).

Abbiamo di fronte mesi difficili. Abbiamo bisogno di democrazia decidente, senza "pieni poteri" né tentazioni autocratiche. Bisogna prenderne atto: qui ed ora non si vede alternativa a questo governo, che vive nella sua precarietà e sopravvive per la sua necessità. E chi in questo momento invoca o ipotizza scenari fantapolitici (governissimi, larghe intese, stampelle azzurre e quant'altro) non aiuta il Paese.

Ma l'emergenza Covid passerà, mentre l'emergenza economica durerà. Per affrontarla serviranno equilibri nuovi e diversi: non sappiamo ancora quali, ma comunque "più avanzati" come si diceva ai tempi della prima Repubblica. Nella tempesta, alla lunga, non si galleggia. Si affoga.

(da La Stampa - 10 maggio 2020)

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