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Lo strano caso dell’unità nazional-populista contro l’Europa (e per il Venezuela)

di Francesco Cundari

Nel giorno più drammatico, quello con il più alto numero di morti dall’inizio dell’epidemia, novecentosessantanove in appena ventiquattr’ore, il ritrovato spirito di unità nazionale si manifesta al massimo grado nel comune sentimento di sdegno nei confronti dell’Europa. Al centro degli attacchi c’è l’inerzia, la mancanza di solidarietà e la resistenza dei nostri partner a ogni ipotesi di eurobond, coronabond o comunque li si voglia chiamare, guidata come sempre da Olanda e Germania. Si tratta di critiche più che fondate. Auguriamoci che trovino ascolto e non prevalga di nuovo un approccio che ha già contribuito a prolungare e ad aggravare enormemente la crisi del 2011.

A costo di passare per guastafeste, però, bisogna pur segnalare un’insidia, nel terreno comune su cui in Italia, peraltro già da diverse settimane, paiono essersi ritrovate tutte le forze politiche, da Pd e Movimento 5 stelle fino a Lega e Fratelli d’Italia. Da un lato, infatti, l’intero dibattito politico sembra un’asta in cui, quale che sia il problema da risolvere, il comparto produttivo in crisi, la categoria sociale da tutelare, maggioranza e opposizione si sfidano a chi spara la cifra più esorbitante, e questo da ben prima dello scoppio dell’epidemia; dall’altro, ci s’indigna perché i paesi europei con i bilanci più solidi mostrano qualche riserva sulla nostra affidabilità.

Ma se le conseguenze economiche dell’epidemia sono che avremo più soldi per tutti, per i lavoratori e per i disoccupati, per le imprese e per le famiglie, per i professionisti e per i nullatenenti, neanche avessimo vinto al totocalcio, e l’unico ostacolo sulla via del paese di Bengodi è rappresentato dall’Europa, è ragionevole pensare che l’opinione pubblica finirà per dare ragione a Matteo Salvini, il quale non fa che portare alle estreme conseguenze un simile discorso, concludendone che, se il problema è l’Europa, tanto vale uscirne. Si capisce che un minuto dopo l’Italia non farebbe la fine della Grecia, come si diceva nel 2011, ma la fine del Venezuela.

Tutti i governi di centrosinistra che si sono succeduti dal 1996 al 2018, dal primo governo Prodi fino ai governi Letta, Renzi e Gentiloni (per il centrodestra bisognerebbe fare un discorso a parte), si sono sempre mossi lungo lo stretto sentiero lasciato libero dalla necessità di risanare i conti senza soffocare lo sviluppo, cercando al tempo stesso di ottenere dai mercati e dall’Europa maggiori margini di manovra, in cambio di riforme strutturali (dalle pensioni al mercato del lavoro).

Comunque si giudichino le diverse combinazioni di questi elementi con cui ciascuno ha tentato di risolvere il problema, e al di là delle inimicizie personali e del modo egoriferito in cui ogni protagonista tende a raccontare la storia, quella strategia aveva una sua coerenza e una sua razionalità. Una coerenza che è arduo rintracciare oggi, per non parlare della razionalità.

Certo è difficile credere che d’improvviso, dinanzi a quella che si annuncia come una crisi devastante, tutti i ritardi accumulati dal nostro paese e tutti i vincoli, economici e politici, con cui la sua classe dirigente si è dovuta confrontare negli ultimi trent’anni (a tenerci bassi) siano magicamente scomparsi.

Se così non è, se le conseguenze dell’epidemia non saranno l’equivalente di una vincita alla lotteria, sarà bene cominciare a dirlo agli italiani, riportando il dibattito politico su un tono più realistico. Tanto le conseguenze sanitarie quanto le conseguenze economiche dell’epidemia sono destinate a far sentire i loro effetti sulle nostre vite per un periodo non breve; sostenere o lasciar credere il contrario significa alimentare aspettative destinate a venire deluse, con reazioni imprevedibili. In questo contesto, accreditare sin d’ora l’idea che tutti i nostri problemi dipendano semplicemente dall’Europa significa preparare una miscela esplosiva.

(da www.linchiesta.it - 28 marzo 2020)

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