logo Fucinaidee

Tralasciando l’analisi dell’attualità politico-sociale, Fucinaidee propone un toccante ricordo di una figura che, al di là della sfera privata, richiama alla nostra mente un tempo che fu, con il suo patrimonio valoriale e con le sue suggestioni.

UN tempo così radicalmente diverso dal nostro, se pur cronologicamente non poi tanto trapassato: penso che qualche nostro lettore ancora possa ricordarsi dell’arrotino che lavorava nei pressi della Porta dei Borghi.

Un testo certo venato da un senso di nostalgia per valori ormai perduti; ma non si tratta certo di una nostalgia passatista, ma della consapevolezza dei pericoli insiti in un presente ormai privo di punti di riferimento sufficientemente solidi.

Non può quindi non tornare in mente una celebre frase del compositore Gustav Mahler: “La tradizione non è la conservazione delle ceneri bensì la custodia del fuoco”.     

Paolo Razzuoli

 

L’ARROTINO DI CORTE PIAGGE

 

Di L.M.L.

 

Agosto 1960: estate calda, quell’anno.

Maria, una bimbetta di 6 anni e mezzo, trattenendo il respiro si lanciò con la bicicletta giù per la discesina della postierla di S.Frediano mentre la mamma spingeva il passeggino della secondogenita, Chiara , nata nel gennaio di quell’anno.

Bella donna, alta, con il fisico ancora un po’ appesantito dalla recente maternità, Anna Maria stava portando le figlie a trovare i nonni, che avevano accudito Maria e lo stesso avrebbero fatto con Chiara fino all’età dell’asilo, “se Dio vorrà” affermava nonna Amelia, semplice e buona, che aveva amorevolmente tirato su i figli del marito vedovo della prima moglie, i suoi e uno stuolo di nipoti.

Maria era ansiosa di arrivare in corte Piagge: certo, per giocare con gli amici, ma quel giorno l’attrattiva più forte era un’altra: nonno Cesare le aveva promesso di farle provare la mola, un vecchio macchinario dimenticato da anni che la bambina aveva scoperto per caso scostando il telo polveroso che lo ricopriva un giorno in cui, giocando a rimpiattino, si era trovata sola nello stanzone in fondo alla corte in cui la nonna custodiva i conigli.

Già, perché Cesare (un “burbero benefico” in perenne adorazione dei nipoti e con ancora nel cuore il sordo dolore per la morte del figlio primogenito per una malattia contratta in guerra) Cesare, dicevo, era stato arrotino ed aveva lavorato per anni, con la sua mola, sotto porta dei Borghi, col caldo e col gelo.

Quel giorno di agosto egli avrebbe, come promesso, mostrato alla nipotina i segreti del funzionamento di quel magico macchinario.

Entrati nella stalla, sollevò Maria all’altezza della mola ruotante e, tenendo delicatamente una lama tra le dita, le fece svolgere il “delicato e difficile” lavoro di dosare lo stillicidio dell’acqua sulla striscia di cuoio che regolava i giri della ruota di pietra: La lama, passata e ripassata su di essa, produceva un suono stridulo, ma il movimento della macchina sembrava scandito all’unisono con quelli regolari e pacati del nonno. A Maria sembrava di partecipare ad un rito antico e solenne:  fissava affascinata le gocce, che cadevano lentamente per mantenere umida la cinghia di cuoio, e le forti mani del nonno, che sapevano rendere affilate le lame, distribuire scappellotti sulle teste dei figli (già grandi ma tenuti al rispetto e all’obbedienza) e carezze piene di affetto su quelle dei nipoti.

  Cesare era stato arrotino per passione e per necessità: il reiterato rifiuto di prendere la tessera del Fascio aveva provocato più di una velata minaccia da parte dei bulletti in camicia nera del Giannotti, oltre all’impossibilità di lavorare come dipendente in qualsivoglia impresa: così si era ingegnato ad imparare un mestiere e dedicandosi ad esso aveva trascorso anni di attività in compagnia del suo macchinario e dei tanti clienti che, portandogli coltelli o altri attrezzi da arrotare, si fermavano volentieri a scambiare due chiacchiere con lui, che ascoltava, rispondeva, ma senza mai togliere il piede dal pedale che imprimeva il movimento alla mola e gli occhi dalla cinghia di cuoio.

 

  Agosto di un anno del nuovo millennio: Maria, trattenendo il respiro, si lanciò con la bicicletta giù per la discesina della postierla di San  Frediano provando la stessa sensazione di quando, bambina, pensava di stare compiendo chi sa quale impresa spericolata.

Si diresse verso corte Piagge e vi entrò: non c’era più nessuno, ormai, dei vecchi ed anche i suoi amici d’infanzia erano sparsi chi sa dove per il mondo.

Sentì, o forse immaginò di sentire, un suono stridulo e prolungato e vide, o forse immaginò di vedere, nonno Cesare alla mola con il piede sul pedale ed il pollice che premeva la lama sulla pietra.

Pensò con rammarico che il vecchio strumento era andato perduto, forse “rottamato” dagli incompetenti che avevano acquistato lo stanzone in fondo alla corte e l’avevano trasformato in fondo commerciale (che, pensò Maria con maligna soddisfazione, aveva visto fallire una dopo l’altra le attività che in esso si erano succedute).

Le vennero quasi le lacrime agli occhi… poi…

Poi si disse che la mola era, sì, andata perduta, ma avrebbe continuato ad esistere fino a quando fosse rimasta nella sua memoria, insieme ai movimenti esperti del nonno: pensò così di fissare sulla carta il ricordo dell’arrotino di corte Piagge. Corse a casa, impaziente di iniziare a scrivere

affinchè Elettra ed Elena, le figlie di sua sorella Chiara, potessero conoscere e conservare un’eredità di ricordi e di affetti, profondi come i tagli prodotti dalle lame arrotate dal loro bisnonno Cesare sotto porta dei Borghi, in un lontano passato, anno dopo anno, in inverni ed estati calde, come questa di uno degli anni del nuovo millennio.

 

Lucca, 28 luglio 2019

 

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina