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Commento introduttivo

Negli scenari nazionali attuali, le Fondazioni di origine bancaria sono fra i pochi soggetti in grado di sostenere concretamente i territori.

Lo fanno sostenendo una grandissima varietà di progetti, riconducibili ai più vari settori: welfare, ambiente, formazione, ricerca, cultura ecc.

Gli interventi delle fondazioni sono essenziali, sia per la vita del variegato tessuto associativo, sia per la realizzazione di progetti di ampio respiro, gestiti in rapporto sinergico con gli enti locali.

Varie sono le forme con cui gli interventi prendono forma; i più diffusi sono: bandi per la concessione di finanziamenti a progetti, iniziative concordate con soggetti terzi, iniziative gestite direttamente.

Le situazioni più virtuose sono, a mio avviso, quelle gestite in un contesto di sussidiarietà, soprattutto allorché l'intervento delle fondazioni assume la connotazione di "moltiplicatore di risorse" a disposizione del territorio. Condizione che presuppone un forte spessore sinergico fra le fondazioni e le espressioni del territorio primo fra cui il governo politico-amministrativo del territorio: condizione non sempre facile da raggiungere, spesso molto faticosa, ma che rappresenta un obiettivo da perseguire con tenacia.

Altro versante di fondamentale importanza è il rapporto con il terzo settore, presupposto indispensabile per poter offrire risposte di orizzonte adeguato ad un tessuto sociale sempre più in difficoltà.

  Le fondazioni di origine bancaria hanno nell'ACRI la loro associazione nazionale.  

Giuseppe Guzzetti ne è stato il presidente a partire dal 2000. Ha pertanto traghettato l'ACRI in varie tempeste, prima fra queste gli anni della crisi della finanza e delle banche. L'ha traghettata sapendo mantenere sempre saldamente in pugno la barra dell'autonomia delle fondazioni, anche nel mezzo di burrasche in cui questa autonomia veniva messa in discussione. A questo proposito non può certo essere dimenticato lo scontro, da cui Guzzetti usciì vincitore, con l'allora Ministro Tremonti. 

  Ho avuto modo di conoscere Guzzetti quando ero ancora molto giovane, per la comune militanza nella Democrazia Cristiana. Ricordo ancora che rimanevo molto colpito dalla sua capacità di saper coniugare la tensione morale e l'ampiezza di orizzonti delle sue analisi, con il pragmatismo di chi sa bene che in politica nulla si può fare senza disporre degli strumenti necessari.    

Ed è proprio questa sua spiccata sensibilità e vocazione politica che ha ispirato i suoi orizzonti in questo suo impegno nel mondo delle fondazioni.

Un patrimonio di attenzione soprattutto al mondo dei più deboli che, mi auguro, non venga disperso da chi a lui subentra. Un patrimonio non solo di contenuti ma anche di metodo, dato di assoluta importanza in un'epoca dominata dall'egoismo e dalla "dittatura del presente". Quanto di più lontano si possa immaginare dagli orizzonti umani, culturali e politici di guzzetti, come ben emerge dall’intervista che propongo ai nostri lettori.

  Una intervista focalizzata prevalentemente su CARIPLO, ma che - escluse alcune parti – propone tematiche di orizzonte nazionale, quindi anche attinenti il nostro territorio.  

Paolo Razzuoli

 

«Serve un’alleanza contro le povertà tra Stato, Fondazioni e volontariato»

 

Intervista a Giuseppe Guzzetti - di Nicola Saldutti

 

«Serve un'alleanza contro le povertà tra Stato, Fondazioni e volontariato»

Giuseppe Guzzetti lascia la fondazione Cariplo

 

Giuseppe Guzzetti ha sempre amato definirsi un avvocato di campagna. E in effetti nei primi anni da studente di Giurisprudenza, alla Cattolica, difese gli

affittuari della Cascina Piatti, a Como, dove era nato, che erano stati sfrattati ingiustamente.

«La Provvidenza fece sì che i contratti andarono perduti…

e da debitori inadempienti, riscrissero gli accordi, e quelle famiglie non finirono in mezzo ad una strada».

 

85 anni lunedì (27 maggio), ha guidato per ventidue la

Fondazione Cariplo, prima è stato presidente («Io non mi sarei mai fatto chiamare Governatore» dice) della Regione Lombardia, democristiano allievo di

Albertino Marcora, della sinistra di base. Più di 30 mila progetti finanziati, 3 miliardi investiti nelle attività sociali e di welfare con la Fondazione.

Ma gira e rigira è stata sempre la politica la chiave del suo impegno:

«È vero, la politica è potere, ma o persegue il bene comune o non va da nessuna

parte. È una grande “balla” questa dello sviluppo economico che risolve i problemi sociali, se non si risolvono prima i problemi sociali e si alimenta

il clima di paura, non si andrà da nessuna parte. Certo la politica è fatta di emozioni, non quelle sbagliate, però».

 

Avvocato, ma davvero le Fondazioni dovranno continuare ad essere supplenti di uno Stato che fa i conti con bilanci sempre più difficili da gestire?

 

«Partiamo dalle cose fatte. Le fragilità sociali, la disoccupazione giovanile, la povertà minorile sono problemi che un Paese come il nostro non può tollerare.

In questi anni abbiamo cercato di contenere il disagio sociale. Una società travagliata fa fatica a risolvere i contrasti. E non è un caso che il clima

d’odio, di rabbia, di isolamento, si sia esteso. Certo, l’immigrazione può diventare un’emergenza per persone che temono per il loro lavoro. Diventa un

timore molto più grande perché si inserisce in un sistema di disagio. Ed è qui che bisogna intervenire. Bisogna costruire, non distruggere. Creare un’alleanza

tra Stato, enti locali, Fondazioni, Terzo settore e, soprattutto, la gente. Solo se questi cinque motori lavorano insieme, le cose si possono fare».

 

Da dove si parte?

 

«Dal 2015 c’è un accordo tra Stato, Fondazioni, Terzo Settore per affrontare la povertà educativa. Sa che ci sono tra 1,2 e 1,8 milioni di bambini in questa

condizione? In Italia. E l’Inps spende nell’assistenza 70 miliardi che potrebbero essere gestiti meglio, da Regioni ed enti locali, con più attenzione

alle periferie. Per iniziative mirate. È necessaria un’alleanza pubblico-privato a livello nazionale. E serve un metodo…».

 

Sta dicendo che i soldi non sarebbero un problema? Eppure con un debito al 135% del Pil gestire il welfare è complicato...

 

«Le risorse sono scarse, per carità. Perciò è necessaria un’alleanza. Dobbiamo programmare, non gestire le emergenze e andare in giro con il sacchetto della

spesa ad aiutare. È fondamentale anche questo, ma non basta più. I progetti devono nascere dal basso, dalle comunità che si mobilitano, non essere calati

dall’alto. Certo è più difficile, faticoso, ma è l’unica strada se vogliamo cambiare davvero le cose. E i risultati arrivano. In questi anni le Fondazioni

con il programma nazionale sulla povertà minorile, hanno contribuito a fare uscire dalla povertà educativa in tre anni poco meno di 500 mila ragazzi. Con

un metodo da estendere ad altre priorità. Come la disoccupazione o i ragazzi che non studiano e non lavorano. Queste sono le cose da fare. A Milano, per

i 21 mila bambini che non mangiano a sufficienza, con il programma QuBì – Quanto basta da 25 milioni di euro, l’intervento è stato realizzato mettendo

insieme le associazioni, il Comune, i quartieri, hanno fatto una fotografia dei bisogni e ora stanno intervenendo insieme. In rete. È un lavoro enorme,

ma l’innovazione sociale si fa così, altrimenti è un placebo, sono pezze che si mettono».

 

Lei descrive un mondo che, a giudicare dai toni dei dibattiti, sembra lontano…

 

«Ma cosa dice. È un mondo che esiste invece, se no saremmo messi molto peggio. Se gli italiani sono generosissimi quando c’è lo tsunami sanno esserlo anche

per le cose che accadono nel loro quartiere. Occorre conoscere e fare partecipare anche i cittadini. Il welfare aziendale sta diventando una realtà. Luxottica

e Ferrero han fatto da apripista; oggi c’è un welfare aziendale che non guarda solo ai dipendenti ma alle comunità fuori dall’azienda. E lo stanno implementando

anche gli artigiani. Mio papà è morto dieci giorni prima della maturità, università Cattolica di corsa, dovevo lavorare. Ho fatto il segretario degli artigiani

di Como. Sa che non facevano entrare un collega perché temevano gli copiasse le idee? Ora la Confartigianato sta realizzando un progetto di welfare comunitario.

Hanno capito che se la comunità è più coesa si vive meglio. Tutti».

 

Però se guardiamo a questi giorni di vigilia elettorale, la coesione non è proprio la fotografia del Paese…

 

«La gente è distaccata dalla politica, le forze politiche si sono messe sul mercato del consenso. Negli anni passati la degenerazione dei partiti ha cambiamo

tutto. Però i problemi veri restano. Quando studiavo alla Cattolica, il professor Vito, mi ha trasmesso un grande valore: l’economia deve essere al servizio

dell’uomo. E vale anche per la politica. I corpi intermedi che di questi tempi vengono considerati residuali servono invece a rafforzare la democrazia.

Gente libera, non condizionabile. Il Terzo settore è una presenza indispensabile nel sistema democratico. Non funziona il rapporto Stato-Mercato: dammi

i voti che ci penso io. Non credo, come alcuni pensano, che possa tornare il fascismo di Mussolini, però bisogna sapere che il Fascismo ha iniziato proprio

distruggendo i corpi intermedi, le cooperative sociali, le mutue, le cooperative di consumo e le associazioni libere. Sono un tessuto da garantire».

 

Il presidente Mattarella, in occasione della giornata del risparmio ha riconosciuto un ruolo centrale alle Fondazioni?

 

«Il presidente ha un’aria mite, ma ha un coraggio da leone ed è il garante intransigente dei valori della Costituzione. Lo sta dimostrando ogni volta di

più. Anche con il suo intervento contro la “tassa sulla bontà”. Quando il governo ha raddoppiato il prelievo sul Terzo Settore. Ora sono tornati sui loro

passi, ma il tentativo di screditare questo mondo è rimasto. Ed è un errore. Le cooperative di consumo sono state inventate per fare credito ai contadini,

per comprare la pasta, il riso e l’olio, da pagare tra un raccolto e l’altro. I cattolici hanno nel dna la solidarietà. E la solidarietà è molto più diffusa

di quanto si creda. Certo, se non arrivi alla fine del mese con lo stipendio, è naturale che le persone siano arrabbiate. Bisogna rispondere a questi bisogni,

non con la paura. In questi anni abbiamo posto il dialogo e la relazione con gli altri al centro del nostro agire. Stabilendo priorità precise, con prospettive

e programmazione. Servono cuore, competenza e determinazione».

 

Consigliere comunale, presidente della Regione Lombardia, presidente dal ‘97 della Cariplo, dal 2000 dell’Acri. Lei ha gestito tanto potere in questi anni…

 

«Abbiamo cercato di fare molte cose. Tenendo sempre presente la lezione di Don Sturzo: le diversità sono una forza, non una debolezza. Il controllo democratico

non è solo quello della Corte dei Conti, ma quello delle persone che possono andare sul nostro sito e vedere come vengono spesi i soldi della comunità.

Questo è un tassello decisivo, se il Paese vuole ripartire, può farlo soltanto ripartendo dalle comunità. Abbassando il clima d’odio. Chiudere i porti,

sostenere che il Parlamento sia un orpello fastidioso, che lo spread si mangia a colazione, ecco questi non sono segnali positivi. Invece il Paese è molte

altre cose. I giovani ad esempio...».

 

Che però fanno fatica a trovare lavoro…

 

«Un recente studio della Cattolica fotografa i giovani come molto più impegnati di quanto appaia. Due su tre sono per l’Europa. E alla vigilia del voto

mi sembra un bel segnale, nonostante tutto. La crisi dell’Europa che c’è va risolta in avanti come volevano i padri fondatori: verso gli Stati Uniti d’Europa.

È un’utopia, ma il mondo ha camminato sulle utopie divenute realtà».

 

Lei ha sempre votato?

 

«Sempre. Anche nei referendum per i quali non andare significava non far raggiungere il quorum. La democrazia è innanzitutto votare».

 

Martedì lascerà il suo incarico alla Fondazione Cariplo, per il suo successore designato Giovanni Fosti non sarà un passaggio facilissimo…

 

«Il professor Fosti ha dimostrato il suo valore negli anni già passati in Fondazione, sarà un ottimo presidente e saprà costruire una squadra all’altezza.

La Cariplo è un’istituzione forte, quando le istituzioni sono bene organizzate si autoconservano e mettono le persone in grado di proseguire il lavoro

avviato e di migliorarlo. La Fondazione andrà in buone mani».

 

Potremmo considerare la vendita della banca Cariplo l’atto che ha segnato la svolta della Fondazione?

 

«Certo, fu uno snodo decisivo; la diversificazione del patrimonio e la possibilità di avviare tutte le nostre iniziative. Aumentava la concorrenza nel mondo

bancario ed era necessario dare un avvenire industriale alla Cariplo Spa e un futuro alla fondazione. Perciò la vendemmo. Per dare vita a quello che poi

è diventato il progetto Intesa Sanpaolo, la prima banca del Paese. E per dotare la Fondazione di un patrimonio proprio da gestire bene e non aspettare

dividenti esposti alle vicende della banca».

 

In questi anni ha lavorato al fianco con Bazoli, non solo per rafforzare Intesa Sanpaolo…

 

«È un uomo di strategie, anticipa, vede. Intuisce. E’ partito che era uno sconosciuto. Una scommessa di Nino Andreatta; e dobbiamo riconoscergli che non

solo ha cambiato il sistema bancario in Italia, ma improntato la sua azione ai valori del solidarismo cattolico, sfidando con coraggio la cultura liberista

dominante. Guardate quello che ha realizzato».

 

Domenica il sindaco della sua città natale, Turate, ha organizzato una festa proprio in quella Cascina Piatti, dove è nato e cresciuto. Uno degli ultimi

incontri pubblici, mercoledì scorso a San Vittore, dove i detenuti del reparto La Nave, ci hanno tenuto a ringraziarlo per aver avuto l’occasione di cantare

alla Scala. Lunedì mattina sarà insieme ai senza tetto. E poi chissà…

 

(dal Corriere della Sera - 25 maggio 2019)

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