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Pubblichiamo il testo (a nostro avviso molto significativo) della Orazione Ufficiale per la ricorrenza del 25 aprile, svolta a Lucca dallo storico Paolo Buchignani.

La ricorrenza del 25 aprile: la sua attualità nel tempo che viviamo

 

LUCCA, 25 APRILE 2019        - ORAZIONE UFFICIALE

 

Di Paolo Buchignani

 

 

Saluto e ringrazio tutti i presenti a questa festa del 25 aprile: le autorità civili, militari e religiose; le associazioni patriottiche, combattentistiche e d’arma, le associazioni partigiane, le cittadine e i cittadini.

        Questa festa non è mai stata la replica di una stanca liturgia. Tanto meno può esserlo in un tempo come quello odierno, investito dal vento di un nuovo nazionalismo che è tornato a soffiare in Europa. Un tempo segnato da inquietanti rigurgiti di intolleranza, di razzismo ed antisemitismo, che si vanno diffondendo nel continente, resuscitando lugubri fantasmi di un tragico passato. Anche oggi, come nel periodo successivo alla prima guerra mondiale e come in quello che seguì alla crisi del 1929, viviamo un disagio profondo, legato ad una altrettanto grave crisi economica, alle distorsioni della globalizzazione, ad un fenomeno migratorio che non si riesce adeguatamente a governare. Anche oggi come allora, milioni di disoccupati, fra i quali tanti giovani, attendono risposte che tardano ad arrivare.

     Negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso le risposte al disagio furono i regimi totalitari e un altro terribile conflitto, rimedi, come rilevò lo storico Robert Conquest (Il secolo delle idee assassine, 1999) molto peggiori dei mali che promettevano di curare.

        Anche oggi, seppure in un contesto diverso (la storia non si ripete mai in modo uguale), rischiamo risposte altrettanto errate e pericolose, nella forma di risorgenti nazionalismi, che  proliferano sulla paura e sulla ricerca di protezione, fomentando odio, divisioni, chiusure, ricerca di capri espiatori. Segnali di una nuova barbarie che minaccia di affondare l’Europa e con essa l’Italia che ne è parte integrante: quell’Europa nata dalla Resistenza contro il nazifascismo e che ci ha garantito settant’anni di pace e di libere istituzioni.

    Oggi più che mai, dunque, il 25 aprile deve essere una preziosa occasione di riflessione, un monito e un impegno.

     Dal Risorgimento è sorta una nazione fondata sulla libertà, inclusiva di tutti i cittadini,  non ostile, ma aperta e collaborante con altre libere nazioni. Così, al di là delle differenze e di contrasti anche aspri, la vollero i suoi artefici, tanto i moderati, quanto i democratici. Così la volle l’europeista  conte di  Cavour, fermamente alieno da ogni forma di nazionalismo autoritario (non a caso, a lui si deve  l’interpretazione parlamentare dello Statuto albertino); così la volle Giuseppe  Mazzini, l’apostolo della libertà e della Repubblica, il fondatore della Giovine Italia e della Giovine Europa, il quale, non di meno, del nazionalismo aveva precocemente intuito i pericoli, quando, con parole profetiche e ancora attualissime, aveva affermato:

“Chi fa la santa parola di Nazionalità sinonimo d’un gretto geloso ostile ‘nazionalismo’, commette lo stesso errore di chi confonde religione e ‘superstizione’”.

     Nei decenni post-unitari, anche a causa del mutato clima internazionale, legato ad una serie di fattori (la fine dell’equilibrio bismarkiano e il conseguente esplodere di numerosi conflitti, il colonialismo, le migrazioni, il dilagare di filosofie irrazionalistiche), va diffondendosi in Italia una cultura politica nella quale i timori di Mazzini prendono forma: la nazione comincia a divorziare dalla libertà e a farsi nazionalismo aggressivo e antidemocratico. In Alfredo Oriani, in Gabriele D’Annunzio, nei nazionalisti di Enrico Corradini, nei futuristi, nei sindacalisti rivoluzionari, nel giovane Mussolini, ancora socialista massimalista, la legittima critica alla classe dirigente si trasforma in critica e delegittimazione dello Stato liberale e delle sue istituzioni, a partire dal parlamento.

     Di lì a poco, questi soggetti alimenteranno l’interventismo rivoluzionario e nazionalista in occasione della grande guerra, e, successivamente, dopo quella immane tragedia, daranno vita alla dittatura fascista: una dittatura che si definiva “rivoluzione del popolo”, che sul popolo, la nazione, la patria, l’impero fondava la sua immagine e la sua propaganda. Ma cosa accadeva nella realtà? Accadeva che quel popolo aveva perduto la libertà, che la nazione del Risorgimento e dello Stato liberale era stata infettata dal virus del totalitarismo e completamente stravolta: non era più la patria di tutti gli italiani, ma soltanto la patria dei fascisti: gli antifascisti, gli ebrei e tutti coloro che non erano graditi al regime e al suo duce, ne erano espulsi: ad essi erano riservati il carcere o il confino di polizia se non la morte (come accadde a Giacomo Matteotti, a Piero Gobetti, a Giovanni Amendola, ad Antonio Gramsci, ai fratelli Rosselli, per fare soltanto qualche esempio).

   La sovranità del popolo, in mancanza di libertà e di pluralismo, era divenuta un imbroglio plebiscitario, ben noto ai nostri costituenti, reduci dalla prigionia o dall’esilio e protagonisti della guerra di liberazione; i quali, non a caso, nell’articolo 1 della Carta che andavano redigendo, non si sono limitati a scrivere che la sovranità appartiene al popolo, ma hanno saggiamente aggiunto “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, cioè secondo regole democratiche e in un contesto di libertà e di pluralismo garantiti dalla legge fondamentale dello Stato.

     La nazione del Risorgimento, dunque, Mussolini non l’ha rafforzata, come aveva promesso, ma l’ha distrutta, nel momento in cui, il 3 gennaio 1925, ha soppresso le libertà fondamentali ed ha instaurato la dittatura. E questo fatto inoppugnabile basta da solo a dimostrare l’infondatezza di una tesi, affiorante di tanto in tanto nei discorsi di qualche politico o di qualche sedicente storico, secondo la quale, se il fascismo non avesse varato le leggi razziali e non si fosse alleato con la Germania nazista, sarebbe stato un buon regime, perché avrebbe fatto anche “cose buone”. Un tentativo maldestro, questo, di chi vede l’albero e ignora la foresta, di chi non vede o non vuol vedere la  natura totalitaria del regime (ammessa dallo stesso Mussolini), dalla quale le leggi razziali discendono, assieme e tutte le altre scelleratezze a partire dalla vocazione bellicista, inscritta nel suo Dna (la rivoluzione antropologica, ostinatamente perseguita dal duce, doveva creare l’uomo nuovo che crede, obbedisce e combatte).

     Dopo la nazione italiana, poi, l’8 settembre 1943 è morto anche lo Stato, e il fascismo è  riapparso nella Repubblica sociale con il suo volto peggiore, ancor più liberticida, sanguinario e razzista. Un fascismo asservito ai nazisti, complice dei loro crimini in un’Italia divisa in due, drammaticamente lacerata e sconvolta. 

     In questo scenario tragico, la nazione di Mazzini e di Cavour è risorta grazie alla Resistenza, non a caso definita “Secondo Risorgimento”.

    E come all’epopea risorgimentale hanno partecipato forze diverse, così è accaduto per la lotta di liberazione dal nazi-fascismo. Una lotta complessa e plurale, condotta sia dalle brigate partigiane facenti capo alle diverse forze politiche (comunisti, socialisti, cattolici, liberali, monarchici,”giellisti”, “autonomi”), sia da quei militari che l’8 settembre non vollero arrendersi ai tedeschi, e il cui apporto non è stato meno importante e il prezzo da essi pagato in termini di sacrificio e di sangue non meno alto.

     Come ebbe ad osservare il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 25 aprile del 2008, “questi sono fatti, non retorica, non mito”. C’è stato, è vero, per molto tempo, egli rilevava, il mito della “Resistenza tradita”, un mito - sono ancora parole del Presidente - “privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto”. Ma di quel mito divisivo, che non riconosceva pari dignità a tutte le componenti della lotta di liberazione, ormai da tempo la fine della guerra fredda e studi storici rigorosi hanno fatto giustizia.

       Oggi il 25 aprile può e deve essere una festa in cui tutti gli italiani si riconoscono, come tutti debbono riconoscersi  nella nazione libera e democratica che da essa è nata e nella Costituzione repubblicana che ne è il fondamento giuridico.

       La Resistenza, come il Risorgimento, ha avuto i suoi eroi e i suoi martiri, tanto sul piano nazionale, quanto nella nostra provincia: e non solo la Resistenza partigiana e quella dei militari,  ma anche quella civile, costituita da uomini e donne comuni e da molti esponenti del clero, che rischiarono la vita o la persero per salvare i perseguitati dai nazisti e dai repubblichini: fossero partigiani o ebrei, giovani renitenti alla leva di Salò o militari anglo-americani fuggiti dai campi di prigionia. Voglio ricordare in particolare i religiosi e tanti cattolici, per i quali resistere a chi violava i più elementari diritti umani era un dovere di carità cristiana da praticare nel silenzio e mai da esibire dopo la Liberazione. E certo, qui a Lucca, per esempio, mai esibirono la loro straordinaria e rischiosissima opera di protezione degli ebrei (salvati a centinaia) gli Oblati del Volto Santo guidati da don Arturo Paoli, ai quali proprio per questo motivo, soltanto a distanza di molti anni, è stato conferito il dovuto riconoscimento. E come non ricordare il sacrificio dei certosini di Farneta (dodici di loro furono tracidati dalle SS insieme a molti civili che avevano generosamente ospitato), oppure quello di don Aldo Mei, fucilato nei pressi di Porta Elisa, o, ancora, di don Innocenzo Lazzeri, ucciso sul sagrato della sua chiesa durante la strage di S.Anna di Stazzema.

    Grande è il nostro debito di riconoscenza nei confronti di tutti i resistenti, armati e civili del nostro territorio (impossibile nominarli uno per uno o anche soltanto quelli che si sono distinti come i più fulgidi esempi di abnegazione e di patriottismo); grande è il nostro debito nei confronti di  questi uomini e queste donne che ci hanno ridonato quella libertà che il fascismo ci aveva tolto, che ci hanno restituito quella nazione libera, pluralista, aperta, solidale che i padri del Risorgimento avevano fortemente voluto. Una patria che il regime aveva sequestrato e sfregiato identificandola con se stesso e che ora tornava ad essere la patria di tutti.

     Patria, nazione, popolo, Italia: parole abusate dalla dittatura mussoliniana, così come dagli odierni nazionalismi e “sovranismi”, riacquistavano per i resistenti, che tante volte le avevano udite, ammantate di retorica, nei discorsi roboanti del duce e dei gerarchi, un significato nuovo:

     “Le parole patria e Italia – ebbe ad osservare la scrittrice Natalia Ginsburg – ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. Eravamo lì per difendere la patria, le strade e le piazze delle nostra città, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che passava”.

     Grazie alla Resistenza, dunque, la nazione italiana si è ricongiunta con la libertà ed è tornata la nazione di tutti gli italiani.

 

Viva la Resistenza, viva la Repubblica, viva l’Italia.

 

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