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L'Italia è una Repubblica democratica, basata sul dilettantismo, purtroppo!

di Paolo Razzuoli

Appare evidente, nel titolo di queste mie riflessioni, il riferimento al primo comma dell'Art.1 della nostra Costituzione, che così testualmente recita:
"L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro."
Un riferimento che, ovviamente, non solo non vuole avere niente di irriverente verso i nostri Costituenti ma, anzi, vuole marcare il profondo solco che separa le aspirazioni e la visione dei Padri della nostra Repubblica, dai tratti che essa ha assunto, soprattutto negli ultimi decenni.

Tratti che, come cercherò di dimostrare, non attengono solo alla sfera politica ma, se pur in modo diverso, hanno ammorbato molteplici strati della società italiana, certo in misura maggiore nella sfera pubblica rispetto a quella privata.
Mi riferisco a quel tratto di pressappochismo, di "dilettantismo" come nel titolo l'ho chiamato, che oggi da noi diffusamente si percepisce, e che sembra scaturire da una sorta di "rassegnazione antropica" che ci impedisce di guardare i problemi in profondità, e che anzi sembra essere quasi una forma di fatalistico e rassegnato adattamento. Quasi un senso di resa ad un declino di cui il Paese sembra non volersi accorgere, nonostante i molteplici campanelli d'allarme che lo segnalano.
MI viene in mente Idra di Lerna, Un mostro a più teste, ognuna delle quali si è insediata nei gangli vitali del nostro tessuto sociale e politico per corroderne le fondamenta.
Ed ora vediamole queste facce....

Prendo le mosse dal senso di deresponsabilizzazione sempre più diffuso, soprattutto nella sfera pubblica, in cui ormai più nessuno è seriamente chiamato a render conto del proprio operato, aldilà della bulimia cartacea, in cui molti comparti della Pubblica Amministrazione esauriscono ogni capacità di controllo e monitoraggio.
Anzi, diciamolo senza ipocrisie, oggi in Italia il dirigente o il funzionario che desiderasse assumersi sino in fondo le proprie responsabilità, (di tanto in tanto per fortuna ancora qualcuno si trova), deve possedere un coraggio da leoni, dovendo affrontare contumelie e grane di qualsiasi tipo, fra la complessità delle procedure, le invettive dei sindacati, magari qualche pressione politica, le incognite della magistratura e via dicendo.
Di fronte a tanto, ovviamente lo scoramento è inevitabile, anche in coloro (e non sono certo molti) che ritengono di dover prendere sul serio le proprie prerogative e conseguenti responsabilità. Figuriamoci come si comportano i più, formati in un contesto in cui ormai dalla fine degli anni '60, sono demonizzati concetti quali il merito, le capacità, la premialità, il monitoraggio dei risultati, le carriere secondo il merito ecc.
E tutto questo in uno scenario in cui la separazione fra ciò che si scrive e ciò che realmente accade si fa sempre più marcata. L'Italia infatti è ai vertici europei per la produzione normativa, così come lo è per la tendenza a non rispettare le norme; facce in qualche modo della stessa medaglia giacché l'ipertrofia normativa si accompagna alla inpossibilità del rispetto di norme spesso incoerenti, di difficile applicazione, non di raro frutto emotivo di specifiche situazioni, affrettate senza adeguate ponderazioni sulle conseguenze ed i risultati.
Norme che, anche quando nelle intestazioni sottendono le intenzioni più nobili e modernizzatrici, spesso contengono le polpette avvelenate nascoste in qualche articolo o codicillo, con cui l'infinita forza della conservazione italiana impone la propria visione ed interdizione.

Così, gattopardescamente, si dà ad intendere di voler cambiare per continuare in realtà a fare come prima; i problemi incancreniscono, ed il Paese sembra instradato inesorabilmente sulla strada del declino, se non ritroverà la forza di uno scatto di reni e di orgoglio necessaria per farlo risvegliare da quella sorta di torpore che sembra lo stia avvolgendo.

Una faccia drammatica della nostra diffusa deresponsabilizzazione è quella che emerge al verificarsi di disastri, sia di origine infrastrutturale, come il crollo del ponte a Genova, che legati ad eventi naturali, come la tempesta che ha creato il disastro delle foreste venete. Quando accadono eventi del genere, tutto il nostro pressappochismo, tutta la nostra attitudine a rinviare i problemi, insomma tutto il nostro dilettantismo, vengono fuori e contribuiscono, ovviamente, alla diffusione di quel senso di sfiducia nelle istituzioni che oggi serpeggia vistosamente nella società italiana.

Spostiamoci ora su un'altro versante del tema, ovvero quello della stridente separazione fra ciò che si dice e quello che in realtà si fa. Una dicotomia in realtà non nuova, ma che negli ultimi decenni ha visto scavare un fossato grande come un mare...
A parole sono decenni A parole, sono decenni che politici e governi di ogni colore hanno sbandierato i mali italiani, senza poi aver mai avuto il coraggio di mettere in campo strategie serie per affrontarli. Intendiamoci, entrare seriamente nelle patologie italiane non è impresa semplice; non lo è oggettivamente, ed appare impresa pressoché impossibile per una classe politica che guarda principalmente ai risultati immediati, inchiodata com'è da quella che in altra occasione ho chiamata "la dittatura del presente". Un paradigma che riguarda la politica italiana, (ed in verità non solo questa), e che è assolutamente trasversale.
Ma guardando in casa nostra, le risorse politiche appaiono veramente modeste rispetto alle dimensioni dei problemi; basteranno alcuni esempi.

Sono anni che si parla della riforma della burocrazia per sottrarla dalla decennale obesità mediante una adeguata cura dimagrante, e per renderla un efficiente strumento al servizio dei cittadini. Qualcuno ha visto una strategia complessiva in tale direzione?
La verità è che per affrontare questo tema occorre anzitutto una visione che superi la logica dell'assemblaggio dei vari interessi corporativi di cui il nostro apparato burocratico è il frutto. La situazione non è così per caso; dietro ci sono processi complessi, interessi corporativi, intrecci fra politica e burocrazia, sia a livelli bassi che delle alte gerarchie. Non è poi così raro che dietro una sin troppo scontata lamentela, si nascondono resistenze ed interessi che sfuggono al grande pubblico e che si è disposti a difendere con i denti. In questa direzzione vanno, ad esempio, normative che privilegiano gli interessi di categorie di dipendenti a spese degli utenti, o vari adempimenti che sembrano più utili al lavoro di categorie professionali che agli utenti e/o agli interessi pubblici.
Vi è poi il versante dell'intreccio fra burocrazia e politica: tema di grande attualità che, andando oltre l'epidermide delle facili parole, non si vede chi oggi possa seriamente rimuoverlo. Anzi, in questa particolare fase politica, in cui il "dilettantismo" assume una particolare declinazione di cui tratteremo più avanti, sperare in una seria strategia appare veramente illusorio.

Un'altro volto del nostro dilettantismo è quello di attribuire ad altri le colpe per ciò che non riusciamo (o non vogliamo) fare. Un caso emblematico è l'Europa, a cui soprattutto negli ultimi anni si è cercato di attribuire la colpa di ogni nostro male. Ovviamente i risultati sono stati disastrosi, come era delresto sin troppo facile prevedere, anzitutto sul versante politico. Si è ingenerato un atteggiamento antieuropeista, anche in strati dell'elettorato tradizionalmente europeista, che è andato ad alimentare posizioni sovraniste, come si è visto alle ultime elezioni politiche.
Ma non è colpa certo dell'Europa se abbiamo una Pubblica Amministrazione ed una burocrazia obesa, arrogante, costosa ed inefficiente che non riusciamo a riformare;
non è certo colpa dell'Europa se non riusciamo a mettere in campo nessuna seria strategia di riduzione del debito pubblico senza minare la coesione sociale;
non è certo colpa dell'Europa se non riusciamo a fare una seria riforma fiscale con riduzione delle tasse, soprattutto sul lavoro, e prevedendo un nuovo patto fra Stato e Cittadino che riesca a ricreare nel contribuente un senso di fiducia;
non è certo colpa dell'Europa se abbiamo un apparato produttivo invecchiato, che sembra ansimare rispetto alle sfide poste dalla globalizzazione;
non è certo colpa dell'Europa se abbiamo un sistema giudiziario che non riesce a tenere il passo con quello di molti altri Paesi europei;
non è certo colpa dell'Europa se abbiamo il tasso di corruzione che conosciamo.

Mi sono soffermato sull'Europa visto che è un bersaglio molto presente nel dibattito di questi mesi; ma è solo un esempio, fra i molti che sono a disposizione, per descrivere questa faccia del nostro dilettantismo, che investe peraltroanche la sfera privata: quando qualcosa non va è sempre colpa di altri (piove governo ladro); la consapevolezza dell'assunzione delle nostre responsabilità è una variante esclusa per principio. Un atteggiamento che certo confligge con la centralità delle responsabilità dell'individuo, presupposto del pensiero liberale, e che in qualche modo spiega la difficoltà incontrata in Italia da tale pensiero.

Per concludere, ma non certo per ultimo di importanza, vengo al dilettantismo al potere, un dilettantismo assunto al rango di ideologia politica, dai movimenti sostenitrici della democrazia diretta, quindi non rappresentativa. Un dilettantismo che va quindi oltre la polemica sull'incompetenza di certi politici o sulle loro gaffe.

I grillini sono i paladini del passaggio alla democrazia diretta, sintetizzata nella formula uno vale uno. Un tema che ha riattualizzato "la cuoca di Lenin".
Ma chi è la cuoca di Lenin? In questi giorni si fa un gran parlare di questa cuoca. In effetti il grande rivoluzionario russo aveva detto che il governo dei soviet, efficiente per definizione, avrebbe potuto anche essere presieduto dalla sua cuoca. Non ha fatto in tempo a sperimentare la sua affermazione e il suo successore, Stalin, non si è proprio posto il problema impegnato come è stato nelle sue opere di riorganizzazione dello Stato e di pulizia intesa in tutti i sensi.

Ma tornando in Italia, è venuto di moda demonizzare sia la democrazia rappresentativa che il professionismo politico. In nome della «vera democrazia», la democrazia diretta, e dei «diritti» del cittadino comune, conculcati dagli intrighi dei professionisti.
Nulla di nuovo: è come un fiume di fango sotterraneo che di tanto in tanto trova uno sbocco in superficie e dilaga rovinando i raccolti, è un insieme di pulsioni che accompagnano la democrazia fin dal suo esordio. La sostanza è sempre la stessa: bisogna abbattere la democrazia rappresentativa e spazzare via i professionisti che fungono da rappresentanti. Per dare il potere al popolo, ai cittadini comuni. Naturalmente, essendo la democrazia rappresentativa l’unica possibile democrazia, «superarla» significa sostituirla con un regime autoritario, nel quale per giunta gli incompetenti occuperebbero le leve del potere. Fortunatamente, (al momento), in nessun Paese europeo, il suddetto movimento sembra avere la forza per mettere fuori gioco la democrazia rappresentativa. Ma ciò non significa che non possa combinare vari disastri.
Questa è una faccia particolarmente preoccupante del nostro dilettantismo. Se l’incompetenza del votante è l’inevitabile tributo da pagare per avere la democrazia e godere dei suoi vantaggi, l’incompetenza del votato, invece, è una iattura.

Il tema vero, andando oltre alcune esilaranti affermazioni di politici di primo piano, "il Presidente del Consiglio Conte ha esaltato l’8 settembre 1943 – in evidente confusione con il 25 aprile 1945 – quale data fondamentale per la rinascita dell’Italia, quando anche i bambini sanno che fu una catastrofe storica, a tal punto che qualcuno l’ha definita “la fine della Patria”; "il Vicepresidente Di Maio ha spostato Matera – città capitale europea della cultura nel 2019 – dalla Basilicata alla Puglia", è che si ha l'impressione che dietro l'ignoranza si nasconda una particolare specie di orgoglio.
Da certi settori della vita politica La denuncia dell’ignoranza e dell’incompetenza di chi ci governa è considerata orgoglio da establishment, reazione aristocratica di una classe dirigente moralmente corrotta, che complotta contro “il governo del cambiamento”. D’altronde, se uno ha il consenso della maggioranza degli elettori, è libero di dire – e di fare – tutto quello che gli viene in mente. O no? Come è ormai evidente sotto i nuovi chiari di luna,  la verità non è più adaequatio rei et intellectus, ma adaequatio rei et consensus. Il che è la base epistemologica del totalitarismo. La cui caratteristica del nostro tempo è che ha alle spalle grandi masse; non è - come in passato - il prodotto di élites intellettuali.

Governare vuol dire schiacciare bottoni in una stanza, anche quando i bottoni non ci siano, come disse notoriamente Pietro Nenni all'epoca del primo centrosinistra.
Qui l'aria è che non ci sono i bottoni, e nemmeno le dita per schiacciarli.

per chiudere tornando sull'Art.1 della nostra Costituzione, i nostri Padri della Repubblica sarebbero sicuramente oggi delusi.
Loro, pensando ai fondamentali diritti di cittadinanza, auspicavano che nella nuova Italia il lavoro fosse garantito a tutti. Purtroppo oggi così non è e le prospettive non sono certo incoraggianti.
Sul versante degli assetti sociali e politici, penso che la situazione in cui viviamo fosse per loro inimmaginabile.
Purtroppo, non solo il lavoro non è garantito a tutti, ma una tossina ammorbante, quella di un dilettantismo che non consente di affrontare i problemi in profondità, sta instradando l'Italia sul pericoloso percorso di un declino senza speranza.
A questo oggi si somma il pericolo di una incompetenza assunta al rango di ideologia politica, che rappresenta una minaccia per i nostri ordinamenti democratici.
Se potessero oggi far sentire la loro voce, credo che i nostri Costituenti ci chiamerebbero a raccolta in favore di un grande sforzo nazionale, quasi per una rifondazione della Repubblica in coerenza con la loro visione che conserva interamente la sua attualità, aggiungendo la necessità di un patto intergenerazionale, per rimetterci su un cammino di rilancio e di futuro, ognuno sapendo rinunciare a qualcosa, e recuperando quel senso di identità collettiva che è alla base del capitale sociale senza il quale oggi nessuno potrà andare lontano.

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