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La nostra fragile democrazia

di Giuliano Amato

Durante il ventesimo secolo, specialmente nella seconda metà, siamo vissuti nell’illusione che la democrazia potesse prosperare in qualunque circostanza. Oggi rimaniamo sorpresi dalla sua fragilità, dal suo «deconsolidamento» — per usare le parole di Yascha Mounk — davanti alle scosse a cui è soggetta. Questa illusione viene dal passaggio – che si riteneva il più pericoloso per la democrazia elitaria uscita dall’Ottocento – al suffragio universale e all’apertura dei canali democratici. Soltanto ora, forse, riusciamo a capire quanto dobbiamo ai partiti politici, a quello straordinario animale che venne creato tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, capace di un metabolismo che unificava preferenze individuali e di gruppo fortemente diversificate e le riconduceva, attraverso paradigmi ideologici condivisi, a visioni e aspettative comuni.

Anche nel secondo dopoguerra questa macchina funzionava senza incepparsi, sino a quando, da una parte, le ideologie comuni hanno continuato a fare da elemento unificatore e, dall’altra, abbiamo goduto di una prosperità economica che riusciva a soddisfare domande diverse e costose. La situazione ha iniziato a precipitare quando i bilanci sono diventati meno capienti e le ideologie hanno cessato di essere persuasive. La grande arma che aveva avuto, per esempio, in Italia il Partito comunista e che era quella di tenere la disciplina nel presente in nome di una grande promessa nel futuro, non ha funzionato più. È entrato in campo, e in modo incontrastato, il presente e in condizioni economiche peggiori, rendendo più frammentate le istituzioni democratiche. È cominciata così la prima fase di crisi della democrazia, minata proprio dalla sua incapacità decisionale: i regimi autoritari, al contrario, riescono a tenere insieme la società, hanno una capacità decisionale che la democrazia sta perdendo.

Resa già così fragile, la democrazia è poi entrata in un mondo nel quale il potere si sposta sopra i suoi confini statuali: un potere che premia alcuni e danneggia altri e che nei Paesi tradizionalmente democratici ha generato invece forti squilibri, arricchendo alcuni e creando per contro un alto numero di infelici, con salari ridotti e lavori sempre più precari. A questo punto, ecco la seconda fase di crisi della democrazia: quella in cui coloro che sono scontenti diventano maggioranze trasversali, che si ergono contro le élite precedenti, accusate di averli dimenticati, e contro chi arriva da fuori. Per anni ci eravamo domandati come si potevano creare maggioranze non avendo più partiti e con società così variegate. Ma ecco che le tensioni centrifughe generano partiti estremi, nei quali lo scontento, la paura, il sentimento antiestablishment, il complottismo, la necessità di trovare un nemico esterno fanno da elementi coesivi. E arrivano a dar vita così a maggioranze.

Così, però, le democrazie diventano ancora più malate: lo erano prima perché non avevano più una maggioranza, lo sono ancora di più ora perché una maggioranza si crea, ma non per rafforzare i principi democratici, bensì per metterli in dubbio o negarli. In tutti i casi in cui si manifesta la tendenza illiberale si regge su un fattore identitario che dà al sentimento nazionale una accezione vicina al vecchio nazionalismo esclusivo e ostile, che fa leva sul dato etnico. In Italia, salvo il breve periodo dell’impero coloniale e delle leggi antiebraiche, siamo stati sempre orgogliosi di una accezione culturale e non etnica del concetto di «nazione», perché espressione di decine di etnie diverse che si sono integrate in questa penisola. Al contrario, oggi si sta tornando a una connotazione etnica e insieme religiosa della Nazione. L’idea che sia democratico ciò che esprime la maggioranza e, al tempo stesso, la maggioranza abbia una connotazione etnico-religiosa omogenea che come tale si contrappone a tutto il resto, può generare solo conflitto e autoritarismo.

Si può «addomesticare il nazionalismo», come propone Mounk, e come? Le modalità non sono solo istituzionali: è necessario lavorare sulle culture collettive con politiche culturali che affrontino il problema dell’incontro-scontro tra gruppi appartenenti a religioni diverse e aventi provenienze etniche differenti. Non è vero, come vuole talvolta un certo superficiale schematismo della sinistra, che i diversi messi insieme si arricchiscano a vicenda senza mediazioni, che ci sia una automatica cross-fertilization. Anche la psicanalisi ci dice il contrario, che lo sconosciuto è fonte di paura. Certamente, le democrazie occidentali hanno la responsabilità di difendere alcuni valori ai quali attribuiscono valenza universale: questo significa, per esempio, prendere atto che la uguale dignità non riguarda soltanto i capi famiglia maschi, ma ciascun componente della famiglia e questo si dovrebbe imparare ancora prima della lingua. Ma, dalla nostra parte, dobbiamo anche arrivare ad accettare odori, rumori, abitudini, riti a cui tendenzialmente non siamo abituati e accorgerci che i nostri vicini sono diversi, ma un adattamento reciproco è possibile.

Conta però, non di meno, ridare prospettive a tutti di miglioramento delle condizioni di vita. E ricreare attorno al lavoro e attraverso il lavoro una scala mobile che si è fermata. Non dimentichiamo che in un Paese come l’Italia, sino a dieci anni fa, entravano annualmente, sulla base di domande di lavoro provenienti dalle imprese e dalle famiglie, 170 mila, anche 200 mila immigrati l’anno, ben di più degli irregolari entrati dopo. Ma di loro non si accorgeva nessuno perché andavano a riempire una domanda di lavoro. È stata la convergenza tra la crisi economica e l’immigrazione clandestina a darci la sensazione di una invasione che non c’è.

C’è il rischio che questa torsione autoritaria e illiberale della democrazia si consolidi e non si riesca a fermarla in tempo utile? Oggi è un rischio che corriamo, rafforzato — va aggiunto — da una informazione ormai inquinata, agitatrice, estrema essa stessa nell’amplificare i motivi di contrapposizione e di ostilità. Lo corriamo in Paesi diversi, ma non è detto che la risposta sia eguale per tutti, giacché non è eguale per tutti la forza dei contrappesi e degli antidoti. La storia, poi, non è determinista. Ci può sempre fare delle sorprese, buone o cattive; così come noi, se vogliamo e ne siamo capaci, possiamo fare delle sorprese a lei.

(dal Corriere della Sera - 7 novembre 2018

(Questo articolo è una introduzione ai «Dialoghi sul trend illiberale» organizzati a Milano da Reset, la rivista web diretta da Giancarlo Bosetti, insieme alla Fondazione Zampa e all’Università Statale di Milano.
L'iniziativa si aprirà con Yascha Mounk e Giuliano Amato che tratteranno il tema «fragilità della democrazia».)

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