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Non dimentichiamo il significato del 4 novembre

di Paolo Razzuoli

Il 4 novembre di 100 anni fa terminava, per l'Italia e non ancora per altre nazioni, la guerra iniziata per noi il 24 maggio del 1915.
Terminava vittoriosamente, anche se al prezzo di gigantesche sofferenze ed oltre seicentomila morti.
Una guerra che mobilitò l'intera comunità nazionale, e che fu la prima grande prova che in qualche modo unificò un Paese politicamente giovane ed ancora profondamente diviso.

Ancora fino all'inizio degli anni '60 del secolo scorso, il 4 novembre era certamente una festa di popolo, la più sentita del calendario civile. A scuola si studiavano il Risorgimento e la Grande guerra fin troppo agiograficamente.
Già allora però il 4 novembre non aveva più la denominazione originaria del 1922, «anniversario della vittoria», dal 1949 era la «festa dell'unità nazionale»; oggi è «festa dell'unità nazionale e giornata delle Forze armate». Nulla da dire sui due concetti, ma è evidente l'offuscamento della vittoria, l'unica che l'Italia unitaria possa vantare (escludendo le guerre coloniali).

Nella temperie politico e culturale successiva alla seconda guerra mondiale, altre narrazioni sono prevalse, in particolar modo quella resistenziale, che ha portato alla democrazia ed alla repubblica, mentre si è affievolito l'interesse sulla vittoria, poiché si ritiene da varie parti, erroneamente, che quella guerra vittoriosa abbia portato al fascismo.

Nel secondo dopoguerra in Italia il concetto di Patria è stato erroneamente confuso con quello di "nazionalismo". Un equivoco nato dalla volontà di lasciarsi dietro le spalle la retorica nazionalista e aggressiva fascista, ma anche strumentalmente alimentato dalla sinistra ed in particolare dal Pci, i cui orizzonti internazionalisti erano legati agli interessi politici dell'URSS e dell'espansionismo comunista.

La patria compare nella Costituzione “solo” all’articolo 52 e in relazione alla difesa e al servizio militare. Non è fatto alcun cenno in positivo all’amor patrio, al legame nazionale e all’italianità come matrice di civiltà e radice di identità. Paradossalmente quindi, si menziona la patria in ragione ad un obbligo che oggi è caduto. Per l'esattezza, il termine Patria compare una seconda volta nella nostra Costituzione, nell'Art.59, con riferimento alla nomina presidenziale dei senatori a vita.
Si deve meritoriamente al Presidente Azelio Ciampi se il concetto di Patria è stato riportato sul binario giusto, conferendo un significato positivo all’italianità come matrice di civiltà e radice di identità. Quindi niente indulgenze nostalgiche e passatiste, ma la consapevolezza che le radici della propria civiltà ed identità costituiscono il presupposto necessario per affrontare le sfide dell'attuale mondo globalizzato ed interconnesso.

A questa riflessione ci interpella il centenario che oggi celebriamo. Un evento storicamente da capire contestualizzandolo correttamente (non c'è cosa peggiore che piegare l'esegesi della storia a fini politici), e da cui trarre gli insegnamenti che ancora con grande puntualità è in grado di offrirci.
Insegnamenti particolarmente preziosi nel contesto italiano ed europeo di oggi, un momento non certo rassicurante, nel quale sembra si voglia disperdere il prezioso patrimonio di valori su cui l'europa si è faticosamente incamminata nel secondo dopoguerra.

E proprio in questo senso mi paiono particolarmente centrate le riflessioni del Presidente Sergio Mattarella, affidate all'intervista rilasciata a Marzio Breda del Corriere della Sera. Propongo inoltre ai lettori di questo sito un testo di Aldo Cazzullo, autore di un celebre saggio sulla Grande guerra.
Sono entrambe riflessioni profonde e di grande interesse. Trovate il tempo per leggerle: ne vale la pena!

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Lucca, 4 novembre 2018

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