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Uno scatto di responsabilità

di Luciano Fontana

Nessuno contesta ai vincitori (su sponde opposte) del voto del 4 marzo il diritto di governare e di farlo con i propri progetti. Ma un atteggiamento serio nei confronti degli italiani si può e si deve chiedere uno scatto di responsabilità

«Ma come va a finire?». La domanda viene posta in continuazione negli ultimi giorni, negli incontri pubblici e in quelli privati. Dagli artigiani interessati alle novità fiscali ai manager preoccupati per lo spread e le cadute in borsa, dagli statali alle prese con «quota 100» ai lavoratori privati scettici sul «reddito di cittadinanza» (aiuterà solo i fannulloni?). Tutti alla ricerca di qualche certezza nella confusione che domina il varo delle manovra economica del governo.

Il consenso all’alleanza Lega-Cinque Stelle è ancora altissimo ma il clima di euforia sta svanendo passo dopo passo. Se sei un piccolo o grande imprenditore, costretto a misurarti ogni giorno con il mercato, i dubbi si stanno trasformando in ostilità. E allora anche per i nuovi leader del «governo del cambiamento» è arrivato il momento di fermarsi un attimo a riflettere. La girandola vertiginosa degli annunci, tra una diretta Facebook e un’offensiva via twitter, sta stordendo il Paese oltre che loro stessi. Non si può continuare in una campagna elettorale senza fine, dove i messaggi hanno solo lo scopo di accrescere il consenso immediato e di decidere la competizione tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio.

La realtà sta scomparendo, le cose che si possono o non si possono fare diventano indecifrabili. Nessuno contesta ai vincitori (su sponde opposte) del voto del 4 marzo il diritto di governare e di farlo con i propri progetti. Nessuno può pretendere che i nuovi protagonisti debbano ripetere il copione, spesso inefficace e qualche volta dannoso, del passato. Ma un atteggiamento serio e responsabile nei confronti degli italiani credo si possa e si debba chiedere. Avere sempre chiari i nostri limiti, i nostri debiti e le nostre insufficienze: questo sì è necessario.

Da domani a fine mese l’Italia è attesa a una prova decisiva: dimostrare che la giusta attenzione per i poveri e gli esclusi si può combinare con un programma economico rispettoso delle compatibilità. Non perché ce lo chiedono politici e tecnocrati europei (il presidente della commissione Jean-Claude Juncker con le sue uscite è diventato l’alleato più prezioso degli estremisti) o i grandi finanzieri. Ma perché non accumulare altro debito, lavorare per ridurlo, è un’assicurazione sul futuro del Paese. Sulle sue possibilità di crescere e creare occupazione. Quale famiglia indebitata progetterebbe il suo futuro continuando a spendere allegramente? Nessuna lo farebbe mai.

Lo stesso credo debba valere per chi governa. Dovrebbe misurare le parole, impedire che le sparate in libertà abbiano conseguenze sui mercati e rendano più costoso il finanziamento del nostro debito. Sta già accadendo con effetti pesanti: per il momento sulle banche ma in tempi brevi anche sui risparmi e sui prestiti ai clienti e alle imprese.

Un’operazione verità sui numeri scritti nel Def è, poi, più che mai necessaria: per realizzare tutte le promesse non basterà lo sfondamento del deficit previsto al 2,4. È onesto dire che tutto non si può fare. Oppure che la situazione dei conti sarà notevolmente peggiore rispetto a quanto dichiarato.

Infine, siamo sicuri che le misure annunciate siano davvero utili a spingere la crescita, creare lavoro e ammodernare l’Italia?
Abbiamo molti dubbi. Il sospetto che il «reddito di cittadinanza» possa trasformarsi in un enorme sussidio clientelare è certificato dalla previsione di una pena spropositata per chi volesse truffare. Allo stesso tempo rivedere le pensioni mettendo a rischio la tenuta del sistema e creando l’illusione di una staffetta tra anziani e giovani non pensiamo sia la strada giusta.

Invece di intervenire sui fattori che bloccano il Paese (tasse, burocrazia, infrastrutture, sviluppo digitale) si disegna un ritorno al mondo antico in cui lo Stato interviene e mette i soldi su tutto: dall’Alitalia, alla gestione delle autostrade alla distribuzione a pioggia di sussidi. Una sorta di Paese di Bengodi in cui si promettono miliardi pubblici salvo accorgersi che quei miliardi non ci sono. Oppure dovranno tirarli fuori gli italiani. Abbiamo qualche giorno per recuperare serietà e buonsenso, per trovare una strada nuova ma ragionevole. Se il governo e i suoi leader si liberano dell’ossessione del nemico e del colpevole da punire forse un’ultima possibilità ancora c’è.

(dal Corriere della Sera - 14 ottobre 2018)

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