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Introduzione

In italia, dal crollo del sistema partitico della cosiddetta "Prima Repubblica" in poi, Il tema dei cosiddetti "moderati" e della loro rappresentanza politica è stato continuamente all'ordine del giorno dell'agenda politica.
Berlusconi, con la creazione di Forza Italia a pochi mesi dalle elezioni politiche del 1994, proprio a questo blocco sociale intese dare rappresentanza politica, visto che ne era rimasto orfano, con la fine (un po' per assassinio e un po' per autanasia), dei partiti del centrosinistra.

L'operazione riuscì, perché la società italiana aveva bisogno di "aria fresca" che Berlusconi sembrò essere in grado di immettere nel sistema politico italiano, certo crollato fra il 1992 ed il 1994, ma già da molto prima ansimante in un'aria stagnante che ogni giorno di più lo privava del necessario ossigeno vitale.

Ma l'operazione berlusconiana (certamente gestita male e finita peggio), era ispirata a valori - almeno a parole - solidamente liberali. Le parole libertà e liberalismo sono state centrali, direi un vero e proprio mantra, nella narrazione berlusconiana. Non casualmente la prima coalizione si chiamava "Casa della libertà" ed il successivo tentativo di partito unico, fatto rapidamente abortire proprio dallo stesso Berlusconi, si è chiamato "Popolo della Libertà".

Dato atto che sul blocco sociale dei cosiddetti moderati, e sul significato politico del termine, ci sarebbe molto da pprofondire, per comodità espositiva (mi si perdonerà la semplificazione) con il termine moderati chiamo quel blocco sociale ispirato al Partito Popolare Europeo: in Italia coloro che non si sono riconosciuti (come chi scrive) in un centrosinistra statalista, giustizialista, legato alle più conservatrici istanze del vecchio sindacalismo, animato da un discreto doppiopesismo nei giudizi e comportamenti politici e morali, manicheo nel senso che si è sentito depositario del bene da difendere contro "l'invasione dei barbari", sempre pronto a demonizzare come "nemici" tutti coloro che osavano mettere in discussione il suo "credo", che scende in piazza con i poveri ma sta ben chiuso in casa propria con i ricchi, pronto a tacciare stupidamente di razzismo chiunque abbia osato mettere in dubbio una politica immigratoria sbagliata, ignorando le paure crescenti fra ogni strato della società, che è andata ad alimentare le forze che oggi ci troviamo al governo del Paese.

Ma l'attuale contesto italiano e non solo, che pone emergenze deltutto nuove e diverse dal passato, esige l'assunzione di categorie politiche e strumenti interpretativi completamente nuovi.
Oggi la vera emergenza, il discrimine su cui l'Italia e l'Europa si giocheranno il loro futuro, per un tempo lunghissimo, è quello fra chi vuole difendere la democrazia e chi, invece, si affida ai populismi e sovranismi, antilibertari e antidemocratici, qualunque sia il colore di cui si ammantano.

Un tema di fondamentale importanza nel cosiddetto mondo "moderato", che ha espresso, nella storia europea del secondo dopoguerra, la miglior politica democratica e la più importante spinta verso l'integrazione europea: Alcuni nomi valgono più di tanti commenti: De Gasperi, Schumann, Adenauer.

Di fronte al diffondersi di governi sempre più autocratici e antilibertari, di fronte all'onda crescente di culture politiche ispirate ai nazionalismi, i "moderati" sono chiamati ad una scelta senza tentennamenti in favore della democrazia e delle politiche di integrazione europea. E sono chiamati a farlo con la mente ed il cuore allungati oltre gli angusti orizzonti del presente, vale a dire con la capacità di pensare in grande nel solco delle migliori esperienze di quella cultura, quindi rifiutando con decisione ogni tentennamento in base a ragioni di mero calcolo di potere.
Le grandi sfide della modernità hanno bisogno di vera politica, di forte spessore valoriale e progettuale; non di giochetti utili solo all'accaparramento di qualche poltrona. Questo può interessare i politici in cerca di immediato bottino; non può certo interessare le popolazioni in cerca di futuro.

In questi giorni si sente nuovamente parlare, qui da noi, di partito unico del centrodestra. Qualcuno dice che Berlusconi, ultimamente stranamente taciturno, sembra attratto da questa nuova avventura.
Per quel blocco sociale che ha votato negli anni Forza Italia, e tutte le sue metamorfosi, l'adesione ad un partito con il DNA salviniano significherebbe l'abbandono dei presupposti su cui hanno poggiato le scelte espresse nell'ultimo ventennio.
Speriamo che di questo ci sia consapevolezza, e speriamo che tale consapevolezza ci sia anche da parte degli altri, chiamati non certo a qualche spolverata di facciata, bensì ad un profondo ripensamento, necessario per provare a risalire la china.

Purtroppo, al di là di quanto ci ha detto Tito Livio "La storia è maestra di vita", la storia sembra non insegni proprio niente.
Comunque, concludendo questo mio commento al testo di Yascha Mounk che propongo ai lettori di Fucinaidee, non posso non ricordare le vicende che portarono all'avvento del fascismo e del nazismo, che videro i moderati ed i conservatori rinunciatari del proprio ruolo di difensori della democrazia, mentre li videro consegnarsi nelle mani di coloro che la democrazia avrebbero brutalmente cancellata.

Paolo Razzuoli

LA VILTÀ DEI MODERATI

di Yascha Mounk

Yascha Mounk Insegna Scienze politiche ad Harvard ed è autore di "Popolo vs democrazia Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale" (Feltrinelli, 2013)

Quando le democrazie sono minacciate dalLa destra, i movimenti conservatori hanno un ruolo particolarmente importante da svolgere a loro tutela. Nella Gran Bretagna del XIX secolo, ad esempio, i Tories riuscirono a integrare monarchici e reazionari nel sistema parlamentare, isolando gli estremisti. Ma il pericolo cresce ulteriormente, se i partiti conservatori non riescono a difendere la democrazia. All'inizio del XX secolo, i partiti tradizionali di destra in Paesi europei come l'Italia e la Germania cedettero le redini del potere agli estremisti, o si trasformarono in autentici nemici della democrazia. Ne derivò una catastrofe politica senza precedenti. È per questo motivo che, secondo quanto affermato dal politologo Daniel Ziblatt nel suo magistrale Conservative Par ties andtheBirth ofDemocracy, i conservatori possono essere «cardine della storia»: se accorrono in difesa della democrazia, il sistema in genere sopravvive. Se fanno fronte comune con i nemici della democrazia o antepongono i vantaggi a breve termine all'impegno di tutela a lungo termine delle istituzioni democratiche, spalancano la porta a ogni genere di autocrati.

Chiunque conosca questo modello storico trova motivo di serio allarme nel fatto che nel 2016 il partito repubblicano americano vilmente non abbia sconfessato Donald Trump. A confronto con la decisione più importante dai tempi della battaglia per i diritti civili, l'establishment conservatore non ha saputo assolvere al suo primo dovere storico. Restii ad anteporre la salute della Repubblica alla prospettiva di riempire un seggio vacante alla Corte suprema e al timore di perdere il consueto spot su Fox News, i fedelissimi del partito, che in segreto detestavano Trump, consentirono alla sua politica di stampo autoritario di conquistare il centro del potere. Anche se Trump verrà sonoramente bocciato alle urne nel 2018 e nel 2020, molto probabilmente ci vorranno anni per eliminare dalla nostra politica il tanfo delle aspirazioni autocratiche.

Qualche anno fa si poteva ancora pensare che il comportamento delle élite conservatrici americane fosse peculiare e anomalo. A differenza della maggior parte delle democrazie occidentali, gli Stati Uniti hanno un sistema partitico debole che rende più difficile all'establishment del partito di controllare i candidati o le loro politiche; quindi forse, il partito repubblicano semplicemente mancava della capacità organizzativa per tenere a bada gli estremisti. Inoltre, a differenza dei grandi partiti di centrosinistra nella maggioranza delle democrazie occidentali, il partito repubblicano si era allontanato sempre più dal centro politico; così forse, secondo un'altra ipotesi, Trump è riuscito a conquistare il controllo del partito perché quest'ultimo aveva subito già da tempo un processo di radicalizzazione.

Entrambe le ragioni addotte indicavano che i conservatori in altri Paesi si dimostravano meno permeabili al fascino della destra anti-democratica. Leader moderati in Paesi con forti partiti politici, questa la tesi, non avrebbero mai seguito la guida ignobile di personaggi come Newt Gingrich o Chris Christie. Al pari di tante altre convinzioni ampiamente diffuse nel 2016, che oggi paiono commovente appannaggio di altri tempi, questa visione ottimistica non regge più. Negli ultimi anni i conservatori in molti Paesi dotati di forti partiti politici hanno stretto pericolose coalizioni con l'estrema destra. In Austria, ad esempio, Sebastian Kurz ha preso il potere cedendo il controllo della politica estera e dei servizi di sicurezza a estremisti di destra che affondano le radici nel movimento neonazista e nutrono una profonda simpatia per Vladimir Putin.

Ma forse la notizia più sconvolgente è degli ultimi giorni: Angela Merkel sta stringendo a tutti gli effetti una alleanza tattica e politica con il più sottile nemico della democrazia liberale in Europa: Viktor Orbàn. Uno dei motivi per cui negli ultimi otto anni Orbàn è riuscito ad assumere il controllo semidittatoriale dell'Ungheria senza ingenerare una forte opposizione da parte delle istituzioni europee è che ha sempre mantenuto legami con i partiti conservatori tradizionali di tutto il Continente. Il segno istituzionale più importante di questo legame è la presenza del suo partito politico, Fidesz, all'interno del Partito popolare europeo (Ppe). E il più importante paladino della adesione di Fidesz al Ppe di centrodestra è stato il leader di quest'ultimo: un parlamentare della Csu di nome Manfred Weber. Quando la Commissione libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo lanciò l'allarme circa l'erosione dei diritti fondamentali della persona in Ungheria, Weber definì il rapporto «tendenzioso e mosso da motivazioni politiche» denunciando il rischio che il Parlamento europeo stesse trasformandosi in un "Grande Fratello".

Per mantenere il potere i partiti conservatori in molti Paesi hanno stretto pericolose coalizioni con l'estrema destra. Quando Orbàn si candì dò alla rielezione in un contesto che molti osservatori esterni giudicarono l'ultima occasione per estrometterlo democraticamente, Weber lo definì «un primo ministro forte» che «vivacizza i dibattiti politici europei». E quando Orbàn puntualmente riconquistò il mandato in elezioni che l'Osce, in termini insolitamente poco diplomatici, bollò come «libere, ma non eque», Weber si congratulò con lui per la sua «netta vittoria». In realtà, Weber ha ormai perfezionato uno schema di grande cinismo per evitare che l'Ungheria sia chiamata dall'Unione europea a rispondere del suo operato. Ogni volta che la Commissione europea medita di intraprendere azioni contro Orbàn, e ciò in risposta alle istanze di altri membri del Partito popolare europeo che chiedono l'espulsione di Fidesz, Weber sostiene che agirà in caso di violazione da parte ungherese dei principi democratici che regolano le elezioni e l'indipendenza della magistratura del Paese. Ma ogni volta che la violazione avviene in forma palese, Weber è pronto a spacciare le piccole concessioni tattiche da parte di Orbàn per un reale dietro-front.

E i considerevoli brogli elettorali e la distruzione dei media indipendenti che hanno consentito a Orbàn di restare al potere? Secondo Weber, non costituiscono violazione dei pricipi democratici. Gli attacchi estremisti alle Ong e alle università? Preoccupanti, ma apparentemente accettabili. Retorica apertamente antisemita? Idem come sopra. Come ha sostenuto Roger Daniel Kelemen, docente di Scienze politiche della Rutgers University nonché uno dei massimi esperti accademici dell'europa centrale, l'atteggiamento di Weber ha inevitabilmente minato la capacità dell'Europa di tenere a bada Orbàn: «La faziosità politica costituisce la massima spiegazione del motivo per cui l'Unione si è rivelata così inefficace nell'opporsi alla volontà di Orbàn di consolidare il potere.

Per capire come mai l'Ue non abbia fatto di più per tutelare la democrazia in Ungheria bisogna guardare innanzitutto ai vertici del Ppe». Ma anche se da presidente del gruppo Ppe Weber ha avuto un ruolo fondamentale nel consentire a Orbàn di distruggere la democrazia ungherese, Angela Merkel la settimana scorsa ha sostenuto la sua candidatura a presidente della Commissione europea come esponente del centrodestra. Se venisse scelto come Spitzenkandidat (candidato principale) del Ppe alle elezioni europee, Weber sarebbe il favorito a rivestire la massima carica dell'Unione il prossimo anno. Visto che le politiche dell'Unione europea sono così complesse - e, francamente, noiose - l'importanza di questi sviluppi è stata ampiamente ignorata. Eppure le conclusioni fondamentali sono piuttosto semplici. Non è un segreto che Merkel non nutra una simpatia particolare per Orbàn. Ma sembra convinta di aver bisogno di lui per mantenere la maggioranza in seno al Parlamento europeo e di non poterglisi opporre senza correre il rischio di aggravare la frattura con la Csu. A fronte del pesante costo politico di una posizione di principio, ha evidentemente deciso di far pace con la destra non democratica.

Le implicazioni per le politiche europee sono enormi. In primo luogo, è quanto mai evidente che, nel futuro prevedibile, l'Unione europea tollererà al suo interno, come membri a tutti gli effetti, degli Stati profondamente illiberali e addirittura non democratici, con grave danno a livello della propria legittimità; se i cittadini tedeschi possono accettare la logica di condividere la sovranità con gli elettori francesi per avere maggior voce in capitolo a livello internazionale, sarà diffìcile spiegare loro che dovrebbero fare altrettanto con un dittatore ungherese. In secondo luogo, il baluardo che i partiti tradizionali sia di destra che di sinistra formavano un tempo contro i nemici della democrazia oggi sembra più fragile che mai. Se Weber e Merkel intendono venir meno ai loro principi per garantirsi la maggioranza nel Parlamento europeo, fattore di relativa importanza, perché mai dovremmo contare sul fatto che resistano ad allearsi con i nazionalisti di Afd, se fosse questo, in futuro, il prezzo da pagare per mantenere il potere a Berlino? Per molti anni Angela Merkel è stata considerata paladina dei valori liberali democratici. Dopo l'elezione di Donald Trump, alcuni commentatori sovraeccitabili la acclamarono addirittura come vera leader del mondo libero. Ma gli ultimi giorni contribuiscono a un giudizio più sconfortante riguardo alla sua carriera: se i politici conservatori sono davvero i cardini della storia, allora Merkel sarà forse ricordata come uno di quelli che hanno fallito l'esame più importante della loro epoca, non opponendosi alla destra anti-democratica.

Traduzione di Emilia Benghi
(da La Repubblica - 5 settembre 2018)

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