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Il compito dei giovani: rifare e ripensare l’Italia

di Ernesto Galli della Loggia

Le culture storiche del nostro progetto democratico non esistono più. Quelle che ne hanno preso il posto sono improvvisazioni destinate a dissolversi

La generazione che oggi ha vent’anni non lo sa, ma davanti a sé ha un compito storico: quello di rifare e ripensare l’Italia. L’Italia com’è oggi, infatti, è a un passaggio critico della sua storia. Un passaggio nel quale stanno scomparendo alcuni dei tratti di fondo della sua antica identità e insieme alcuni aspetti centrali della sua vicenda politica dell’ultimo settantennio. Alla generazione che oggi ha vent’anni e a quelle successive toccherà dunque di costruire un Italia nuova da ciò che rimane di quella che oggi declina. Sta innanzi tutto scomparendo con rapidità impressionante l’Italia popolosa e demograficamente forte, il Paese della folla di giovani e di bambini che molti di noi ancora ricordano. Le statistiche non lasciano dubbi: se l’Italia vuole avere un qualsiasi futuro deve assolutamente trovare il modo di riempire i vuoti prodotti dai figli che diciamo così i «nativi» non fanno più. In quale modo? A meno che il ministro Salvini non ne abbia scoperto uno alternativo finora sconosciuto, nell’unico modo possibile: l’immigrazione. Oggi dominano a questo proposito comprensibili paure insieme ai buonismi più vacui. Ma alla fine la realtà s’imporrà. Dovranno essere fatte scelte terribilmente impegnative. Non sarà più possibile nascondere la testa sotto la sabbia come oggi molti sono tentati di fare.

Immigrazione dunque, ma da dove? Con quali regole? E soprattutto: come fare a trasformare 10-15 milioni di immigrati in nuovi cittadini italiani? Come fare a trasmettere loro il patrimonio della nostra storia, delle nostre tradizioni, dei nostri valori, ma combinando creativamente tutto ciò, com’è necessario, con i patrimoni altrui? L’alternativa a scadenza più o meno ravvicinata — non più di mezzo secolo — è la virtuale scomparsa del nostro Paese. Per evitarlo bisogna pensare a costruire concittadini di un’origine diversa da quella dei «nativi» e insieme quindi una nuova identità nazionale, e quindi una nuova narrazione del passato, una nuova istruzione, dare forma a nuovi miti, a nuove emozioni e a nuove passioni. Un compito affascinante ma enorme.

Così come enorme è il compito che la futura generazione dovrà affrontare per salvare lo stesso volto fisico della Penisola: i centri abitati come le coste, le montagne, i paesaggi. Salvarli dalla distruzione che incombe e che già ne ha compromesso tanta parte. Salvarli specialmente dal nemico a cui li stiamo consegnando: il turismo di massa che sta letteralmente annientando il nostro Paese. Roma, Firenze, Venezia, infatti, e con esse anche decine e decine di luoghi e di centri urbani medio-piccoli, dalle Cinque Terre a Matera, alle coste siciliane e sarde, stanno perdendo a causa del turismo la loro secolare fisionomia, si spopolano, si deturpano, si snaturano, stanno diventando simili a uno scenario finto e privo di vita. Sotto l’incalzare dei bed and breakfast, delle case vacanze, dei residence, degli alberghi, di autobus mostruosi, di orde di mangiatori di pizze, di trangugiatori di gelati, di acquirenti compulsivi, il tessuto umano scompare, il sistema viario va in pezzi, ogni commercio antico perde la sua ragion d’essere. Si aggiunge a mettere le città in ginocchio la micidiale movida che segna le notti italiane. Il tutto all’insegna di un sostanziale problema di democrazia: quello di stabilire cioè a chi appartiene l’Italia: se agli italiani o, sotto il ricatto dell’occupazione, alle associazioni di albergatori, ristoratori e commercianti, mai sazie di guadagni a spese della collettività.

Agli italiani giovani che ereditano la situazione attuale, già in gran parte compromessa, il compito di deciderne l’esito finale, di decidere se in futuro accanto a un popolo italiano nuovo debba sopravvivere oppure no l’Italia: con la sua natura e la sua storia antiche con il suo volto irripetibile. Non basta. Agli stessi italiani di domani ma già di oggi spetterà infatti il compito altrettanto gravoso di ridefinire il significato storico complessivo della nostra statualità e le sue caratteristiche più generali, dagli ordinamenti interni alla collocazione geopolitica del Paese. Perché di questo sempre più evidentemente ormai si tratta, dal momento che stanno andando in pezzi le regole costituzionali, i panorami ideologici e partitici, le architetture istituzionali e le reti di alleanze internazionali, gli spazi e le direttrici di azione, le vocazioni che dalla fine della seconda Guerra Mondiale ci hanno caratterizzato. Neppure siamo più il Paese ricco che eravamo.

L’Italia vive oggi un intermezzo tra ciò che essa è stata e non sarà mai più, e ciò che non è ancora. Il progetto democratico che ha identificato il Paese che abbiamo conosciuto è ormai privo dei suoi tre grandi protettori internazionali: gli Usa, la Chiesa cattolica, l’Unione sovietica. Le culture storiche che avevano animato quel progetto non esistono più, e quelle che ne hanno preso il posto sono palesemente delle improvvisazioni rabberciate nate da moti dell’opinione pubblica che come si sono subitamente formati sono pronti a dissolversi. Altrettanto palesemente il sistema di governo e dei poteri pubblici disegnato dalla nostra Costituzione si rivela sempre di più un meccanismo arrugginito che fa acqua da tutte le parti. Per dirne solo qualcuna: si dà ormai per scontato che il governo non abbia alcuna unità d’indirizzo, che la maggior parte delle funzioni parlamentari abbia virtualmente cessato di esistere, che debbano esistere due Camere con le stesse identiche funzioni, che la magistratura si spartisca i posti più importanti in base alle appartenenze politico-correntizie dei suoi membri.

Sul piano internazionale, poi, oggi l’Italia è sola, è tornata ad essere sola come forse lo è stata unicamente nell’immediato dopoguerra. Il sogno europeo va lentamente dissolvendosi in una vampata di risorgenti nazionalismi destinati a mettere in luce tutte le nostre debolezze. Non particolarmente amati da nessuno dei due, ci aggiriamo tra Francia e Germania senza un’idea o un progetto nostri. Davanti alle lusinghe russe non sappiamo se cedere o no ed eventualmente fino a che punto. Nel bacino del Mediterraneo il terremoto mediorientale dell’ultimo decennio ci ha privato di ogni antica amicizia che ogni volta, se ci va bene, dobbiamo faticosamente ricontrattare. In Libia e ai suoi confini meridionali — una zona per noi di vitale importanza per l’approvvigionamento energetico e per il controllo dell’ondata migratoria — difendiamo a stento le posizioni che ancora teniamo contro l’iniziativa francese.

È un Paese in queste condizioni che la generazione che oggi ha vent’anni e quelle che immediatamente la seguono si accingono ad ereditare. Certo, avrebbero potuto sperare in qualcosa di meglio. Ma le circostanze e soprattutto l’incapacità e la sprovvedutezza di chi li ha preceduti — cioè nostre — non hanno permesso di fare di più.

(dal Corriere della Sera - 8 luglio 2018)

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