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Forza e debolezze dei sovranisti

di Sergio Fabbrini

Se ci fosse un novello Karl Marx, potrebbe affermare che uno spettro si aggira per l’Europa, anche se questa volta si tratta del “sovranismo” (e non del comunismo). Il sovranismo è meno di una teoria e più di un sentimento. In esso confluiscono e si mischiano interessi e predisposizioni che provengono dal nazionalismo, dal populismo e dalle culture illiberali (di destra e di sinistra). Esso esprime l’insoddisfazione verso i processi di globalizzazione e, nel nostro continente, di integrazione. Costituisce la reazione all’interdipendenza tra Paesi. L’interdipendenza ha risolto vecchi problemi, ma ne ha creato anche di nuovi (come ha mostrato Dani Rodrik). Il sovranismo si sviluppa questo contesto. Il suo successo elettorale ha punti di forza e di debolezza. Vediamoli.

Considero due punti di forza, uno geo-politico e l’altro sociale. Quello geo-politico si chiama Stati Uniti. È stato il Paese più forte dell’occidente che ha attivato una dinamica di reazione ai processi di interdipendenza, quindi trasferitasi sulla sponda europea dell’Atlantico. Come ha scritto Angelo Panebianco, con l’arrivo di Trump alla presidenza americana hanno cominciato ad incrinarsi gli equilibri politici europei. Trump ha inaugurato una politica sovranista che non va confusa con l’isolazionismo ottocentesco di quel Paese. Essa consiste nella visione del sistema internazionale come arena in cui imporre il potere unilaterale degli Stati Uniti.

Il presidente americano non vuole distruggere le organizzazioni internazionali su cui si è basato l’ordine liberale post-bellico, bensì mira a svuotarle dall’interno. Come nel caso dei dazi, Trump persegue politiche (per lui) elettoralmente convenienti, anche se il loro esito conduce all’indebolimento del sistema collettivo delle negoziazioni. Con Trump che soffia sulle loro vele, anche i sovranisti europei stanno perseguendo una azione simile, lo svuotamento dall’interno dell'Unione europea.

Oltre al fattore geo-politico, vi è anche un fattore sociale che sostiene i sovranisti. Settori delle società europee hanno maturato un sentimento di paura nei confronti delle politiche di apertura, anche perché ne hanno pagato i costi. I sovranisti parlano a quelle paure, spesso le alimentano. Si guardi all’immigrazione. Rivendicano il controllo della piena sovranità territoriale dei loro Paesi proprio per inviare un messaggio di protezione ai cittadini più socialmente esposti. Sul controllo delle frontiere nazionali, infatti, vi è una vera convergenza ideologica tra i vari sovranisti europei. Il 18 giugno scorso, il primo ministro ungherese Viktor Orban ha sostenuto che «la difesa della frontiera è un compito obbligatorio da fare a casa e non già un compito europeo». Pochi giorni dopo, il ministro degli Interni tedesco Horst Seehofer ha minacciato la sospensione di Schengen se non venivano bloccati gli spostamenti verso la Germania dei rifugiati accettati in altri Paesi europei. Il 27 giugno, il primo ministro italiano Giuseppe Conte, intervenendo alla Camera dei deputati, ha affermato che non è questo «il tempo di proporre cessioni di sovranità in ordine alle politiche pubbliche sulla gestione dei flussi migratori». Pure in Europa, rassicurare i cittadini attraverso la difesa del territorio nazionale, e accompagnare questa azione con politiche d’ordine, è elettoralmente vantaggioso.

Tuttavia, i sovranisti hanno anche punti di debolezza (senza considerare che la stessa politica americana potrebbe cambiare in futuro). Ne considero due, uno politico e l'altro economico. Sul piano politico, i sovranisti hanno difficoltà intrinseche a coordinarsi per generare un esito conveniente per tutti loro. Se nella riunione che si terrà tra pochi giorni a Innsbruck tra i ministri degli Interni italiano, austriaco e tedesco, ognuno di loro rimarrà fedele alla propria visione sovranista, allora il controllo dei movimenti migratori tra quei Paesi non farà molta strada. Se decidessero poi di perseguire una coerente politica sovranista, allora sarebbe il Paese più esposto a pagarne le conseguenze. Cioè noi. Infatti, la Germania potrebbe chiudere le sue frontiere meridionali, l’Austria potrebbe chiudere il Brennero, ma l’Italia non potrebbe chiudere il Mediterraneo.
Ma anche sul piano economico, i sovranisti incontreranno difficoltà. Ammesso che funzioni, “prima il mio Paese” può valere per gli Stati Uniti, non già per i Paesi europei (come ha rilevato Walter Russell Mead). Il protezionismo commerciale, se applicato in Europa, porterebbe alla frammentazione del mercato unico, un esito inaccettabile per molti elettori dei partiti sovranisti. Se ogni Paese europeo, in nome del proprio sovranismo (come sta facendo la maggioranza di governo italiana), sospendesse l’approvazione dell’Accordo economico e commerciale con il Canada (CETA) e perseguisse politiche del lavoro e delle pensioni scaricandone i costi sugli altri Paesi, il risultato sarebbe la crisi del Paese che i sovranisti vogliono governare.

Insomma, in Europa la critica all’integrazione ha assunto caratteristiche sovraniste, piuttosto che nazionaliste (come è avvenuto invece nel Regno Unito). Probabilmente, è stato il fallimento della Brexit che ha spinto il nazionalismo europeo verso ilsovranismo. Di fronte all’incapacità dell'Ue di governare importanti sfide alla vita dei suoi cittadini, i sovranisti hanno avuto successo nel rivendicare il rimpatrio di cruciali competenze di politica pubblica.
Le elezioni per il Parlamento europeo del prossimo maggio 2019 costituiranno un passaggio cruciale per capire le capacità di collaborazione tra i sovranisti e soprattutto la consistenza dell’obiettivo che stanno perseguendo (lo svuotamento dell’Ue). Naturalmente esse consentiranno anche di capire se vi sarà una alternativa efficace al sovranismo. Se quest’ultima tardasse però a formarsi, allora lo spettro del sovranismo sarà destinato ad aggirarsi per ancora molto tempo tra di noi.

(dal Sole 24 Ore - 8 luglio 2018)

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