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Salvini e Di Maio contro Tria: il Governo è diviso su tutto, e in autunno saranno guai seri

di Stefano Cingolani

Il Decreto Dignità di Di Maio aumenterà le spese, la Flat Tax di Salvini ridurrà le entrate fiscali. Mentre il ministro Tria cerca di tenere sotto controllo i conti. Posizioni incoerenti che con la fine del Quantitative Easing sono destinate ad esplodere. E a causare tanti guai all’Italia

C’è un ministro del lavoro e dello sviluppo, Luigi Di Maio, che vuole creare lavoro e sviluppo chiudendo in una rigida gabbia il capitale umano (che non è quello del film di Virzì). C’è un ministro dell’interno, Matteo Salvini, che pensa al Brennero blindato (dal quale sembra che ultimamente siano passati solo due migranti in cerca di asilo): a lui quella roba concordata con la Cgil di Susanna Camusso non piace; tuttavia per ora dice “facciamogliela fare” pensando di fare poi i conti (politici). C’è un ministro Giovanni Tria che i conti (economici) li fa già e non se li tiene affatto per sé, anzi li spiega a un parlamento distratto dalla propaganda, tutto intento ad accapigliarsi su un twit (cioè una canzonatura) per rispondere a un tweet (un cinguettio che ormai per tutti è un messaggio via twitter).

L’ultimo inquilino di palazzo Sella ha parlato come il suo lontano predecessore, Quintino, tristemente noto per la tassa sul macinato, anche se fu un ottimo ministro. Tria ha detto (o meglio ripetuto) alcune cose chiare: nessuna misura che possa peggiorare i saldi di finanza pubblica; blocco della spesa corrente al netto dell’inflazione; continuare a ridurre il rapporto tra debito pubblico e prodotto lordo; evitare un peggioramento del saldo strutturale. Il ministro vuole usare le poche risorse disponibili per aumentare gli investimenti pubblici. E’ cosciente che, se tutto andrà liscio, i benefici sul pil si vedranno tra un paio d’anni, ma sa anche che è l’unico volano disponibile per sostenere la crescita senza far saltare i conti pubblici. Ed è anche consapevole che la sua linea di condotta entra in collisione con le priorità dei dioscuri gialloverdi.

È vero che il decreto Di Maio non comporta nessun esborso immediato, ma i suoi effetti sul mercato del lavoro produrranno costi alle imprese che a loro volta diventeranno aggravi per lo stato e l’intera economia. La flat tax, invece, avrà un impatto certo sul gettito fiscale, nel senso che lo ridurrà. Di quanto, dipende ancora da come verrà congegnata la nuova imposta sul reddito che, questo è già certo, non sarà piatta, ma articolata in due aliquote e quattro scaglioni effettivi, tenendo conto di deduzioni e detrazioni per rendere l’imposta progressiva. Se la riforma ridurrà la pressione fiscale, cioè se non sarà coperta con ulteriori balzelli, aumenterà il reddito disponibile e per questa via, i consumi (a meno che il vantaggio fiscale non diventi risparmio, magari sotto il materasso per sfiducia nelle banche), la domanda interna e poi il pil dell’anno prossimo. Intanto, però, ci sarà un serio problema di entrate.
La Lega scommette sulla “pace fiscale”, ma non riesce a quantificare l’eventuale effetto del condono, troppo ampia è l’incertezza, troppo vasta l’evasione.

Tria non ha molto da spendere per gli investimenti. Congelare la spesa corrente in termini nominali significa, secondo un calcolo approssimativo recuperare 10 miliardi di euro il prossimo anno. Grosso modo altrettanti si spera che vengano dalla trattativa con Bruxelles per ottenere maggiore flessibilità. Ma attenzione, bisogna trovare 12,5 miliardi solo per scongiurare l’aumento delle imposte indirette. Tria lo avrebbe evitato volentieri e lo ha spiegato quando ancora era solo un professore, ma Di Maio ha promesso ai commercianti che l’Iva non salirà. Dunque, i margini di manovra sono esigui, non c’è spazio né per il reddito di cittadinanza (tanto è chiaro che slitterà fin quando non entreranno in funzione i centri per l’impiego) né la flat tax.

Il governo assomiglia, insomma, a un cerbero, ma a differenza dal cane mitologico le tre teste non guardano nella stessa direzione e non abbaiano all’unisono.
Non solo: due emettono latrati acuti e roboanti, la terza produce un flebile ron ron, eppure è l’unico suono che bisognerebbe ascoltare per davvero.

La tranquillità di Tria rassicura e meraviglia nello stesso tempo. Come fa a continuare per la sua strada senza farsi distrarre? Come fa a non sentire la cacofonia che lo circonda? Forse ha deciso di andare avanti seguendo solo la propria coscienza, fino al punto di rottura. Lo caccino se ne hanno il coraggio. Una minicrisi dello spread ha provocato già un terremoto, ha fatto crollare di dieci miliardi di euro il capitale di Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana. Continuiamo così, facciamoci del male, avrebbe detto Nanni Moretti il quale, ormai, ha rinunciato anche ai girotondi.

Dicono le voci di palazzo Chigi che Tria durante i consigli dei ministri non parla se non interrogato, a differenza dell’eclatante Paolo Savona che non resiste a impartire lezioni sulle cose che sa (e lui ne sa molte nei campi più svariati). Tace e fa i conti, Tria, davanti a quella scrivania carica di memorie. Una, in particolare, non può non preoccuparlo, è quella del suo predecessore Giulio Tremonti. Nel 2011, sotto i colpi di una tempesta provocata dal crac della Grecia e dagli errori della coppia Merkel-Sarkozy, insistette per tenere salda la barra e non cedere alla pressione per dare una “frustata” alla congiuntura attraverso l’aumento della spesa pubblica che veniva sia da Forza Italia sia dalla Lega (allora ancora Nord).

Mentre saliva lo spread, la Banca centrale europea inviò ai primi di agosto una lettera firmata da Mario Draghi governatore della banca d’Italia oltre che da Jean Claude Trichet presidente della Bce. La raccomandazione più urgente riguardava le pensioni. La Lega fece le barricate. Non restava che preparare una finanziaria lacrime e sangue. A quel punto sia i mercati sia le cancellerie cominciarono a chiedersi chi guidava la macchina dell’economia italiana, il prudente e rigoroso Tremonti o il partito trasversale degli spendaccioni? Sappiamo poi com’è finita. Oggi non c’è aria di lettere né da Francoforte né da via Nazionale, ma non ce n’è bisogno: la chiusura del quantitative easing in autunno suonerà anche la fine della ricreazione.

(da www.linchiesta.it)

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