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Giuseppe Pardini, Docente di storia contemporanea, Università degli Studi del Molise.
«Prove tecniche di rivoluzione. L'attentato a Togliatti, luglio 1948»
Editore Luni, Milano, 2018, pagg. 348, € 24

«Prove tecniche di rivoluzione. L'attentato a Togliatti, luglio 1948»
L'ultimo volume di Giuseppe Pardini

a cura di Paolo Razzuoli

E' in libreria l'ultimo volume dello storico lucchese Giuseppe Pardini:
«Prove tecniche di rivoluzione. L'attentato a Togliatti, luglio 1948», Editore Luni, Milano, 2018, pagg. 348, Euro 24.

Giuseppe Pardini è un docente e storico lucchese. Ancor giovane, ha alle spalle una brillante carriera universitaria e una importante serie di pubblicazioni e di collaborazioni con blasonate riviste.
Laureato in Scienze politiche, indirizzo storico-politico, presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Universita' di Pisa, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia Contemporanea presso la Scuola Superiore "S. Anna" di Pisa. Assegnista in Storia Contemporanea presso la Facolta' di Scienze Politiche della LUISS "Guido Carli" di Roma, è stato docente a contratto di Storia dei Movimenti e dei Partiti politici presso la Facolta' di Scienze Politiche dell'Universita' "S. Pio V" di Roma e docente a contratto di Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze politiche della LUISS "Guido Carli" di Roma.
Attualmente è professore associato di Storia contemporanea, presso i corsi di laurea in Scienze Politiche dell'Universita' degli Studi del Molise.

E' membro di prestigiose istituzioni culturali:
- Membro dell'Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti; - Membro dell'Accademia Pugliese di Scienze, Università di Bari, 2013;
   - Direttore scientifico del Museo internazionale delle Guerre mondiali (Rocchetta al Volturno - Isernia);
- Direttore della collana scientifica "Il Novecento", Edizioni dell'Orso, Alessandria;
- Direttore della collana scientifica "Studi Molisani", Volturnia edizioni, Isernia;

Acuto studioso del fascismo, ha posto sotto la sua lente indagatrice la sua storia, i suoi protagonisti, il suo impatto sui vari aspetti della società italiana, (ha pubblicato interessanti lavori anche sul fascismo lucchese), impressionante, per quantità e qualità, è la mole delle sue pubblicazioni. Qui elenco solo le monografie, escludendo quindi i saggi, le curatele e le varie schede.

Già collaboratore della rivista bimestrale di studi storici "Storia Contemporanea" (Il Mulino, direttore R. De Felice), collabora alla rivista bimestrale di studi storici "Nuova Storia Contemporanea" (Le Lettere, direttore F. Perfetti), dal 1997.

Ma veniamo al volume. Lo facciamo con lo stesso Giuseppe Pardini, riportando il testo che è apparso sul "Domenicale" del Sole 24 Ore, il 10 giugno scorso.

Italiani sull’orlo della guerra civile

Il 14 luglio 1948 un giovane di destra sparò contro Palmiro Togliatti, segretario generale del Partito comunista italiano; il Migliore cadde gravemente ferito, a rischio della vita per alcune ore. Nel Paese si scatenò una violenta ondata di scioperi, manifestazioni, proteste, violenze che in alcune province presero sembianze di moti prettamente insurrezionali, con l’occupazione di stazioni ferroviarie, assalti a carceri, sedi di partiti avversari, uffici istituzionali, con un drammatico bilancio di 31 morti e oltre 500 feriti. Per fare luce su queste complesse vicende, ho effettuato una lunga e meticolosa ricerca, basata sul ritrovamento di una vasta documentazione inedita, che affronta molti nodi storici ancora irrisolti. I risultati di questa indagine sono raccolti nel volume Prove tecniche di rivoluzione. L’attentato a Togliatti, luglio 1948 (Luni editrice, di cui qui anticipo le tesi in esclusiva per la Domenica del Sole 24 Ore.

Si tratta di materiale prodotto dal servizio segreto militare dell’epoca, chiamato Ufficio Informazioni “I” e posto sotto l’egida dello Stato maggiore dell’esercito. Erede del Servizio informazioni militare (Sim) e precursore del più noto Servizio informazioni forze armate (Sifar), l’Ufficio operò nel cruciale periodo 1945-1949, con 11 Centri di Controspionaggio nelle zone geopolitiche e strategiche più importanti. Aveva infiltrati in ogni partito e numerosi erano pure i confidenti reclutati all’interno del Pci, attraverso i quali l’Ufficio monitorava con acume l’evoluzione politica in atto e i potenziali pericoli eversivi. Al vertice della struttura militare stavano uomini di provata capacità e fedeltà alle istituzioni repubblicane, tanto che avrebbero raggiunto poi i maggiori gradi di comando delle forze dell’ordine del Paese. Del resto i temi di cui si doveva occupare l’Ufficio “I” erano delicati e per questo le operazioni di intelligence venivano svolte senza badare troppo a spese e risorse (un fiduciario all’interno del Pci poteva intascare anche 30mila lire, oltre ai passaporti per gli Usa per sé e famiglia...). Per queste ragioni la documentazione prodotta da quei servizi appare oggi molto attendibile e in grado di illustrare la vera percezione del Pci, del suo apparato paramilitare clandestino, dell’ipotesi insurrezionale (il leggendario “Piano K”), e di tutto quanto veniva definito, insomma, “pericolo rosso”. Si tratta della documentazione che probabilmente avevano cercato Viktor Zaslavsky e la Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia, nel tentativo appunto di fare anche luce sull’apparato paramilitare del Pci.

Altre carte inedite, poi, che hanno permesso di disegnare un quadro diverso da quello tradizionale, sono state rintracciate nel fondo Ordine Pubblico, una sezione della Direzione generale di Pubblica sicurezza adibita al controllo dei movimenti e dei partiti nonché delle manifestazioni di carattere politico, e altre ancora nel Gabinetto del Ministero dell’Interno, tra cui la rilevante cronologia degli avvenimenti redatta dal Comando generale dell’Arma dei carabinieri sulla base dei vari rapporti dei comandi provinciali, nonché una serie di relazioni ispettive di alti funzionari, spesso “compromessi” col regime fascista ma impiegati proficuamente in funzione anticomunista.

Purtroppo continuano a essere escluse dalla consultazione, invece, altre significative carte che avrebbero potuto precisare interrogativi ancora aperti, e cioè i fascicoli conservati nell’Archivio Riservato del Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (per tacere di quelli dell’Archivio Segreto): sebbene siano passati 70 anni da quei difficili giorni e da quelle vicende politiche, tali interessanti fascicoli giacciono purtroppo ancora “secretati” all'interno di armadi ministeriali. La documentazione reperita appare per certi aspetti di grande rilevanza, non soltanto perché fornisce una nuova interpretazione degli episodi connessi allo sciopero generale e alle proteste per l’attentato a Togliatti (queste le forme ufficiali che il Fronte popolare e la Confederazione generale del lavoro vollero utilizzare contro il governo De Gasperi), ma anche per comprendere la prassi politica insurrezionale ipotizzata dal Pci e il ruolo del suo braccio armato, l’Apparato per l’intelligence militare. Fuori dalla leggenda, l’apparato clandestino non era un complesso unitario, organico e ben definito, ma aveva un senso soltanto se inteso come sommatoria di varie strutture paramilitari (ex partigiane) di alcune regioni, in particolare di quelle di Liguria, Piemonte e Lombardia, con le strutture emiliane e toscane cui si attribuiva peso minore, e con poco altro a livello locale da concorrere a definire l'intero apparato. Al riguardo uno dei documenti più interessanti (a pag. 186):
«L’esame critico portato sulle posizioni-chiave dell’Apparato comunista (perché è di questi che specialmente si discorre) ha posto in luce che la sua consistenza è nettamente inferiore a quella che generalmente gli viene attribuita. Le due grandi masse di manovra di cui si compone l’Apparato sono: a) quella della regione Emilia/Toscana, b) quella del triangolo Milano/Genova/Torino. Senza riportare i dati sulla scorta dei quali si è proceduto, basterà tenere presente che le forze reali di cui dispongono i comunisti nella prima sono state valutate con sufficiente approssimazione fra i 25mila e i 30mila uomini inquadrati, armati e dotati di munizionamento sufficiente. Il computo riesce assai più difficile per la seconda, ma essa non può essere di molto superiore, in maniera che le forze sufficientemente organiche dislocate nell'Italia settentrionale non dovrebbero distaccarsi molto dai 60mila uomini. Questa massa notevole si completa di diverse formazioni partigiane (Anpi) efficienti in altre regioni, fino a raggiungere un totale di 100mila uomini circa. Vale la pena di notare che le informazioni più recenti e più attendibili vengono a confermare indirettamente la valutazione sintetica che venne già fatta in passato. Senza sottovalutare il valore di queste forze, si può però affermare che esse possono essere controllate con sufficiente sicurezza dalle formazioni O[rdine] p[ubblico] della polizia e da quelle mobili dei carabinieri, il cui inquadramento, armamento e efficienze tecnica e morale sono in costante miglioramento. Le forze di cui dispongono le sinistre appaiono bensì in grado di creare delle situazioni locali tali da dare ai rispettivi partiti il controllo di determinati centri, se non addirittura di determinate regioni (per esempio l’Emilia e la Liguria), ma tale controllo sarebbe certamente di breve durata e l’isolamento dei centri di resistenza relativamente agevole. Le sinistre hanno perduto l’occasione favorevole nell’estate/autunno 1945. Dopo di allora la conquista del potere con la forza è diventata in Italia praticamente impossibile. Questa impossibilità deriva in via primaria dagli sviluppi della situazione internazionale (passata gradualmente sotto il controllo Usa), ma anche in via secondaria dalla ovvia considerazione che l’Apparato ha un valore politico fintantoché non viene adoperato, perché una volta messo allo sbaraglio ed esauritane le possibilità, sarebbe un elemento negativo. Un movimento insurrezionale che terminasse con un insuccesso liquiderebbe praticamente le sinistre sul terreno politico e ricondurrebbe il comunismo italiano sulle posizioni di partenza che esso aveva vent’anni fa».

Considerando che almeno il 90% degli agenti di polizia si era detto pronto, inoltre, a sparare contro i comunisti in caso di insurrezione, il quadro appariva fosco per le ipotesi di abbattere il governo di De Gasperi e della Dc con la forza. Anche per questa ragione uno dei maggiori esponenti del Pci avrebbe confidato che «il potere non lo conquisteremo mai con le elezioni e in questo momento fare un atto di forza sarebbe una pazzia», ma la situazione era comunque incerta e in continua evoluzione, e a detta di molti attenti osservatori sarebbe bastato un qualsivoglia “pretesto” per poter dare il via all’insurrezione, come invocavano i settori più rivoluzionari del comunismo italiano. Il 14 luglio quel pretesto, col grave ferimento del Migliore, a molti apparve arrivato...

(dal Sole 24 Ore - 10 giugno 2018)

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