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Introduzione

Nei giorni scorsi ho proposto ai lettori di Fucinaidee alcuni contributi nei quali sono chiaramente espresse le perplessità circa la correttezza costituzionale della strada intrapresa dai diarchi Salvini Di Maio.
L'atteggiamento del Presidente mattarella è sotto questa lente assolutamente irreprensibile. Se avesse ceduto al diktat, avrebbe consegnato, a se stesso ed ai suoi successori, un profilo ridotto della funzione della Presidenza della Repubblica, così come disegnata nella nostra Carta Costituzionale.

Le reazioni scomposte di queste ore sono veramente fuori luogo. Come tutti i media hanno ampiamente riportato, Di Maio parla addirittura di IMPEACHMENT. Accuse che si trasformeranno in un boomerang.
Un’ipotesi del genere è stravagante. Si fonda sul nulla. Si addebita al capo dello Stato di essersi avvalso dell’articolo 92 della Costituzione. Il capoverso, da me riportato in un recente contributo, recita così: «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri».
Il Prof. Conte è stato utilizzato - dai diarchi Salvini e Di Maio - come un portalettere da spedire senza indugio al Quirinale. È per l’appunto su questo che Mattarella ha avuto da ridire. Perché la forza del diritto in una democrazia degna di questo nome deve avere il sopravvento sul diritto della forza. Senza contropoteri, non c’è che la tirannide della maggioranza stigmatizzata da Alexis de Tocqueville. D’altra parte, fin dai tempi di Luigi Einaudi il presidente della Repubblica ha detto la sua nel procedimento di formazione del governo. Solo che un tempo la riservatezza impediva di conoscere per filo e per segno l’influenza esercitata dal Quirinale.

Ma al di là della questione istituzionale, la politica ci dice altro: ci dice che Salvini ha voluto far saltare il banco, per calcoli elettoralistici.
Infatti è opinione diffusa che dalle prossime elezioni uscirà molto rafforzato; e per questo ha giocato da politico avveduto e astuto, imbambolando il suo sodale Di Maio che, istericamente, non sapendo con chi prendersela, agita il fantasma dell'IMPEACHMENT.

Ma al di là del contingente, la politica non potrà sfuggire al vero interrogativo: come è stato possibile che tanti italiani abbiano votato per le forze sovraniste?
Un esame che dovrà essere fatto in profondità, senza reticenze, senza il consueto vezzo italiano di addossare ad altri le responsabilità. Proseguendo su questa strada, o su quella di non avere il coraggio di entrare nel centro dei problemi, restando per impavia e/o per ipocrisia sul loro orlo, i populismi avranno sicuramente la meglio.
La loro narrazione farà leva sull'orgoglio nazionale, contro le sopraffazioni della Germania e più in genere dell'Europa. E la voglia di riscatto dallo straniero, vero o presunto, ha toccato il cuore degli italiani perlomeno a partire dal Risorgimento.
Vedremo una campagna elettorale al segno della lotta ai cosiddetti poteri forti ed all'establishment, nelle forme sicuramente più demagogiche, ma che potranno far breccia in una società sempre più incattivita, alle prese con le quotidiane difficoltà, illusa che il recupero della dimensione identitaria possa aiutare a risolverle.

Sarebbe atto di cecità e sordità politica pensare che ci troviamo di fronte ad un temporaletto estivo. Ci attende invece una tempesta lunga e rovinosa. Una tempesta che, al suo passaggio, probabilmente distruggerà l'assetto politico del Paese, almeno come lo abbiamo visto in questi anni.
E di questo occorre avere piena consapevolezza se, dopo la tempesta, si vorrà ricostruire un assetto politico capace di guardare in avanti.
Qui non ci troviamo di fronte ad una semplice contingenza; davanti a noi c'è qualcosa di strutturale, che solo con grande coraggio e lungimiranza potrà essere affrontato.
Occorre che la politica (intendendo con ciò tutti i soggetti capaci di elaborazione-riflessione sul discorso pubblico) e si badi bene non solo in Italia, sappia risvegliarsi da quella specie di sonnambulismo in cui sembra essere caduta.
E bisogna che lo faccia presto, per non arrivare quando è ormai troppo tardi...

Mentre sto scrivendo queste righe, vedo sul televideo che Cottarelli salirà al Quirinale alle 16:30. Tutto lascia intendere che scioglierà la riserva e che saranno nominati i ministri. Nel contesto in cui il governo potrà operare, credo sia giusto dar atto alla squadra di governo del profondo senso di servizio verso il Paese.
Lo spread a oltre 300 punti base non è certo un viatico incoraggiante...

Paolo Razzuoli

I politici sovranisti non vengono da Marte

di Angelo Panebianco

Non muterà presto la fisionomia assunta dalla politica italiana. Le nuove divisioni si incontrano con altre più antiche. Non si tratta di un fuoco di paglia

Tutto si svolge secondo copione: i «fautori del cambiamento» cercano di scaricare sul presidente della Repubblica le colpe di un fallimento che è soltanto loro. Una parte ampia del Paese tira un sospiro di sollievo pensando che stava per formarsi un governo il quale, probabilmente — grazie alle sue brillanti idee sulla finanza pubblica e sul che fare in Europa — sarebbe riuscito a distruggere i risparmi degli italiani nel giro di sei mesi. Ma il sollievo può essere solo momentaneo.
Non solo perché ci sarà da affrontare — a breve termine immaginiamo — un cruciale passaggio elettorale. Soprattutto perché, comunque vada a finire, un cambiamento irreversibile si è prodotto in Italia. Sbaglia chi crede, magari pensando alla vicenda del quasi governo Conte, che i partiti antisistema avranno un rapido declino. Poiché la storia non insegna mai niente ai più, è un fatto che in questo errore sono caduti in tanti, tutte le volte che un movimento anti establishment è entrato nell’area del potere: «Lo manovreremo come ci pare e, poi, quando non servirà più, lo getteremo via». In genere, chi ha pensato questo è stato manovrato e poi gettato via.
Non cambierà presto la fisionomia assunta dalla politica italiana. Dureranno le grandi divisioni che ora la attraversano. E dureranno i politici emergenti che le hanno cavalcate con successo.

Le nuove divisioni che hanno ridimensionato, o appannato, la tradizionale distinzione sinistra/destra (quella che un tempo, ad esempio, opponeva l’Ulivo prodiano al Polo delle libertà berlusconiano) hanno per oggetto le regole del gioco politico-istituzionale (quale sarà il «tasso di liberalismo» che conserverà la nostra democrazia?), la collocazione internazionale, l’immigrazione. Queste novelle divisioni, oltre a influenzarsi a vicenda, si incontrano con altre divisioni molto più antiche (come quella Nord/Sud) disseminando ovunque cariche esplosive.

Le forze emergenti sono culturalmente ostili alla democrazia rappresentativa (liberale). Oggi come in passato, quando si evoca la «democrazia diretta», si sta in realtà auspicando una qualche forma di Führerprinzip, di «principio della supremazia del capo». La polemica contro i «competenti» (come hanno osservato Alberto Alesina e Francesco Giavazzi su questo giornale), nonché la contrapposizione fra il popolo innocente e le élites criminali, sono aspetti di questa sindrome.
Il diffuso rigetto nei confronti della democrazia rappresentativa, delle sue regole, e delle istituzioni liberali che la sorreggono, è il frutto di una trentennale, martellante, propaganda che ha dipinto la politica rappresentativa come un verminaio, il concentrato di tutte le lordure e le brutture, e i suoi esponenti come gente per la quale vale l’inversione dell’onere della prova: è ciascuno di loro che deve dimostrare di non essere un corrotto. Il lavaggio del cervello a cui il «circo mediatico- giudiziario» ha sottoposto per decenni tanti italiani, ha funzionato. Complice la tradizionale debolezza della cultura liberale, molti si sono convinti che questo è, a causa della politica, il Paese più corrotto del mondo o giù di lì, e che bisogna innalzare (per ora solo metaforicamente; in seguito, si vedrà) la ghigliottina. È l’ostilità alla democrazia liberale che spiega i tentativi di «superare» la rappresentanza moderna (i rapporti fra la Casaleggio Associati e i parlamentari grillini richiederebbero più attenzione). Ed è sempre l’ostilità alla democrazia liberale e alle sue guarentigie a spiegare la furia giustizialista dei vincitori e del loro seguito. Pensate alla proposta di abolire la prescrizione nei reati. Neanche ai fascisti era mai venuto in mente di sottoporre tanti poveri disgraziati alla tortura di provvedimenti giudiziari senza data di scadenza.

La seconda divisione investe la collocazione internazionale dell’Italia. Sul versante dell’Europa come su quello dell’alleanza atlantica. Non è probabile che un governo grillo-leghista (o solo grillino o di centrodestra a dominanza leghista) che eventualmente si formi dopo le prossime elezioni decida formalmente di uscire dall’euro o dalla Nato ma certamente ci sarebbero azioni tese ad allentare il più possibile il legame fra l’Italia e i nostri tradizionali ancoraggi internazionali. Perché è quanto prescrive la visione «sovranista» dell’interesse nazionale. Una volta deciso — e fatto credere a tanti italiani — che i nostri mali siano stati causati dall’Europa non resta infatti che la strada della contrapposizione. E pazienza se la posizione negoziale italiana risulterebbe, al tavolo europeo, debolissima (Sergio Fabbrini, Sole 24 ore). Pazienza anche se in questo modo l’Italia non potrebbe avere voce in capitolo quando si trattasse di correggere tutto ciò che non va (ed è molto) nella costruzione europea.
Anche sul secondo versante, quello atlantico, si preannuncerebbero tempi duri. Forse la Nato ricorrerebbe a una qualche forma di cordone sanitario (Maurizio Molinari, La Stampa) in funzione anti italiana quando dovesse vedersela con l’orientamento filorusso (e antiatlantico nella sostanza anche se non nella forma) di un importante stato membro.

Da ultimo, l’immigrazione. Genera ovunque conflitti ma l’aggravamento di questa divisione è anche il frutto degli errori commessi dai governanti del passato. Soprattutto, da coloro che hanno confuso il messaggio cattolico sul dovere dell’accoglienza con i doveri di chi governa una democrazia, coloro che non hanno capito che la società aperta non si difende senza una seria e rigorosa politica dell’immigrazione. Gli stessi che, di fronte alla sfida islamica, hanno pensato che l’integrazione dei musulmani si favorisca venendo a patti con i fondamentalisti. Mentre richiede l’esatto contrario.

Forse gli uomini nuovi riusciranno a imporre, prima o poi, i cambiamenti che hanno in mente. O forse non ci riusciranno. Forse assisteremo alla riscossa (in forme oggi imprevedibili) di chi si oppone al disegno sovranista. In ogni caso, ci si tolga dalla testa l’idea che si tratti di un fuoco di paglia o di un acquazzone estivo. Non è l’invasione degli Hyksos (gente arrivata nell’antico Egitto da chissà dove). Li abbiamo allevati noi.

(dal Corriere della Sera - 29 maggio 2018)

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