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La partita, le regole, e i rischi di andare fuori strada

di Sabino Cassese

Attendiamo ora la nomina dei ministri: anche per questa si vedrà se le due forze politiche sapranno stare nella carreggiata, fissata dalla Costituzione, secondo la quale il Presidente del Consiglio incaricato (e non altri) propone e il Presidente della Repubblica nomina (e quindi può anche non accettare proposte)

È nata la terza Repubblica? Si completa il secondo importante rivolgimento tra le forze politiche italiane. Un quarto di secolo fa, erano usciti di scena Dc, Psi e Pci, oltre ai partiti minori, protagonisti di mezzo secolo di storia politica. Ora sono fuori dal governo (in via di costituzione) Forza Italia e il Partito democratico, che avevano dominato la scena dal 1994 (anche se prima con nomi diversi). La Costituzione, tuttavia, nonostante due tentativi di modifica, è rimasta la stessa, mentre la periodizzazione francese, a cui ci si ispira correntemente, indica, invece, altrettante modificazioni costituzionali.

Se la Costituzione, che detta le regole del gioco, non è cambiata, vanno segnalati tre pericoli di andare fuori strada, tutti dettati da una certa insofferenza per le regole. Il 21 maggio scorso, mentre si parlava della nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, il «capo politico» del M5S ha affermato che il Presidente della Repubblica «non si permetterebbe di porre veti». Due giorni dopo gli ha fatto eco il leader della Lega dicendo: «Il Colle non si opponga agli italiani». Queste due affermazioni partono dal presupposto che spetti alle forze politiche l’iniziativa della nomina del capo dell’esecutivo.

Invece, la Costituzione dispone che questa è di competenza del Quirinale, e prassi e scienza giuridica sono nel senso che scelta e nomina sono atti presidenziali, a cui si aggiunge una «autorizzazione» parlamentare (la cosiddetta fiducia). Dunque, il Presidente della Repubblica non interviene in seconda battuta, per confermare o porre veti. Il secondo pericolo è indicato da una frase di Di Maio del 14 maggio: «si discute prima delle questioni [della politica] e poi degli esecutori». Non è così che la Costituzione configura il governo: questo determina la politica del Paese e il suo Presidente mantiene l’unità dell’indirizzo politico. Siamo ben lontani da un governo – esecutore.

Un altro sintomo delle oscillazioni delle forze politiche chiamate a formare il governo, oscillazioni che le possono portare fuori strada, è dato dal «Contratto per il governo del cambiamento». Questo non è solo dominato dalle paure (fino a prevedere telecamere nelle scuole), ma sembra ispirato da una sorta di timore del passato, di volontà di liberarsi dei vincoli derivanti da trattati e accordi internazionali, nonché di leggi (via la legge Fornero, via la legge sulla scuola, eccetera). Ora il peso del passato, con tutte le sue norme, le sue tradizioni, le sue pratiche, va gestito, senza farsene incatenare, ma anche senza voler fare «tabula rasa», perché democrazia non è solo quello che oggi vuole il popolo, ma anche quello che esso ha voluto ieri.

Viene da ultimo il «ribaltamento» voluto dal leader della Lega («oggi è popolo contro élite», ha detto il 21 maggio). Affermazione singolare per quello che è poi avvenuto, con la scelta, forse dettata da reciproca sfiducia o da carenza di personale interno, di un capo del governo non eletto e comunque appartenente alla élite. Paradossi di forze unite dall’ispirazione populista, che debbono chiedere a un professore universitario di assumere il peso della guida del governo. Attendiamo ora la nomina dei ministri: anche per questa si vedrà se le due forze politiche sapranno stare nella carreggiata, fissata dalla Costituzione, secondo la quale il Presidente del Consiglio incaricato (e non altri) propone e il Presidente della Repubblica nomina (e quindi può anche non accettare proposte).

Verrà, a governo funzionante, «il tempo del fare» (Salvini, 21 maggio). Che ci si può augurare? Che le due forze politiche sappiano seguire il percorso che avevano avviato appena entrate in Parlamento, con una rapida ed efficace istituzionalizzazione della loro azione. La capacità di seguire il percorso costituzionale è anch’essa democrazia e rispetto delle regole del gioco. Quindi, non bisogna prendere per impedimenti i contro-poteri propri di una costituzione mista (basterebbe leggere poche pagine del libro sesto delle Storie di Polibio), accettando controlli e «checks and balances», ricordando sempre che l’elettorato non ha dato a nessuna forza politica un mandato pieno a governare (le due forze di governo, in termini di voti popolari, sono state elette da una minoranza dei votanti e ancor meno degli aventi diritto) e che M5S e Lega possono costituire un governo proprio grazie a quella democrazia rappresentativa, parlamentare e proporzionale che il M5S aveva così fortemente avversato in nome della democrazia diretta.

È anche sbagliato affermare che i vincoli europei vanno rivisti «per finanziare tutte le misure economiche che diano diritti sociali agli italiani», come ha sostenuto il leader della Lega. La contrapposizione tra vincoli europei e diritti degli italiani è sbagliata per tre motivi. In primo luogo, perché quei vincoli sono contenuti in trattati firmati dai governi italiani e ratificati a larghissima maggioranza dai parlamenti, quindi a nome del popolo italiano. In secondo luogo, perché i trattati contengono impegni che abbiamo preso con altri popoli: dobbiamo quindi rispettare anche le altre democrazie. Infine, perché le misure economiche evocate per dare diritti sociali agli italiani saranno pagate dagli italiani stessi, non dagli altri Paesi europei, con aumento del debito a carico delle future generazioni e con maggiore costo dell’attuale debito a carico nostro. Vorrei concludere consigliando ai nuovi governanti la lettura (o rilettura) delle tragedie di Sofocle, dove si spiega: «non volere che tutto sia in tuo potere» e «concediti di cambiare idea». La «hybris», la dismisura, l’assenza di limiti, genera tirannidi.

(dal Corriere della Sera - 25 maggio 2018)

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