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Un Paese che va rifondato

di Ernesto Galli della Loggia

La nostra democrazia ha bisogno di un forte richiamo all’impegno nazionale. Il Paese per disperazione è tentato dalle sirene dell’avventurismo politico

Ha ragione Giuliano Ferrara — restituitosi finalmente alla sua intelligenza dopo il fatuo ottimismo che ostentava nella stagione che si chiude — quando ha scritto che «c’è qualcosa di misterioso e di tremendo nell’affondamento della Repubblica», nella Repubblica «virtualmente a pezzi» che abbiamo da tempo sotto gli occhi (Il Foglio, 10 maggio). Ma il punto di partenza di questo naufragio non è come egli pensa, e come in vario modo molti altri pensano con lui, l’uccisione di Aldo Moro. La «corrosione dello Stato», «la prigionia della cultura e della politica» non nascono da quel delitto.

La democrazia italiana non è stata messa in ginocchio dalle Brigate Rosse. È stata consumata da un’entità ben più forte e indomabile: dalla sua stessa storia, non riconosciuta e ancor meno compresa ma invece mistificata ed edulcorata quanto possibile. A suo modo «misteriosa e tremenda» è per l’appunto questa resistenza della storia all’oblio, il fatto che essa non dimentica nulla e di tutto prima o poi presenta il conto agli immemori. E cioè a noi che abbiamo dimenticato la nascita infelice della nostra democrazia da una guerra rovinosamente perduta accompagnata da una guerra civile. Una guerra civile che se ha pur momentaneamente unito alcuni pezzi del Paese (quelli della sua futura ufficialità politica) , molti di più ne ha diviso tenacemente nell’anima e per molto più tempo.

Egualmente abbiamo rimosso il fatto che la sconfitta ha annichilito il nostro rango internazionale, ha cancellato per mille aspetti la nostra stessa sovranità lasciandoci organicamente subalterni a poteri stranieri. Sia pure a dispetto della buona volontà di molti è accaduto così che dopo il ‘45 la dimensione della nazione si sia rapidamente eclissata. E in assenza della nazione per forza di cose non ha potuto neppure esistere l’idea dell’autonomia e del valore superiore dei suoi interessi generali. Cioè degli unici fattori che rendono possibile l’esistenza di una vera classe dirigente. Sicché abbiamo dovuto contare solo sulla politica: ma una politica poggiante in certo senso sul vuoto, dal momento, tra l’altro, che le modalità della sconfitta — l’8 settembre — sono valse a dare un colpo durissimo all’immagine già non molto solida dello Stato, della sua autorità e del suo comando. Ha compiuto l’opera un gigantesco fenomeno di camaleontismo di massa dall’antico al nuovo regime. La Resistenza infine — benché certamente assai utile come giustificazione ideologica ufficiale del nuovo regime democratico — ha pure significato tuttavia (complice la successiva «guerra fredda») radicare nel Dna della Repubblica non solo il fascino della fazione e dello scontro e la facilità del ricorso alla delegittimazione e all’inimicizia assolute in nome dell’antifascismo, ma anche la perdurante suggestione dell’ «organizzazione» e delle «reti» più o meno occulte, oltre la strisciante tentazione per le forme più varie di «complotto» insieme al continuo allarme circa la loro esistenza.

La vita della democrazia italiana, priva dell’ancoraggio in istituzioni forti e in una vera classe dirigente, è stata progressivamente corrosa dalla corrente sotterranea dei grigi lasciti della sua origine, destinati ad affiorare di continuo e drammaticamente. Basta ripercorrere una cronaca arcinota. Eccola sia pure sommaria: la semirivolta a macchia d’olio del luglio ’60; l’uso improprio dei Carabinieri accarezzato da un Presidente della Repubblica, Segni, poi colto da un infarto in circostanze poco chiare e «dimessosi» in circostanze ancora meno chiare; una città capoluogo di regione, Reggio Calabria, messa a ferro e a fuoco e presa in ostaggio per settimane e settimane da bande di rivoltosi fascisti; un altro Presidente della Repubblica, Leone, costretto inopinatamente a dimettersi contro la sua volontà; la diffusione del terrorismo come in nessun altro Paese europeo; un’organizzazione segreta, la P2, infiltratasi massicciamente ai massimi livelli dello Stato e della società; attentati dinamitardi a ripetizione per anni di origine sostanzialmente sconosciuta, con decine e decine di vittime; un uomo politico chiave, Moro, assassinato; un altro, Andreotti, innumerevoli volte ministro e capo del governo, incriminato come colluso con i vertici della mafia, processato e solo semi assolto; ancora un terzo, Craxi, inseguito da mandati di cattura e costretto all’esilio; un altro Presidente della Repubblica, Cossiga, dimessosi prima di esser messo sotto accusa dal principale partito d’opposizione per tradimento della Costituzione; di nuovo un altro Presidente della Repubblica, Scalfaro, oggetto di illazioni pesantissime e costretto a difendersi in modo improprio; quattro partiti che per un quarantennio erano stati il cuore del governo del Paese cancellati nel giro di diciotto mesi per una serie di inchieste giudiziarie; infine una serie di uomini chiave dell’economia — Mattei, Calvi, Gardini, Cagliari — morti tutti in modo violento e in circostanze oscure o comunque drammatiche. Esiste un’altra democrazia in Europa, mi chiedo, che possa vantare una simile sfilza di fatti inquietanti (che non sono semplici fatti isolati : costituiscono un contesto)? E come non pensare proprio per tale contesto ad un’origine lontana e rimossa? L’articolo famoso con cui Pier Paolo Pasolini intendeva smascherare i «misteri d’Italia» non doveva intitolarsi «Io so»: avrebbe dovuto intitolarsi «Io ricordo».

Mille segni di crisi — tra cui ultimo di queste ore la clamorosa confisca/cancellazione di fatto, ad opera della nuova partitocrazia, della carica di Presidente del consiglio — indicano che ormai all’ordine del giorno va messa la rifondazione della Repubblica. Né più né meno. Ripensare senza inganni compiacenti la sua origine storica, costruire una sua nuova memoria rispondente alla verità: ecco il primo compito di questa rifondazione. Senza di che continuerà ad essere impossibile restaurare la dimensione della nazione: cioè la consapevolezza di far parte di una comunità con una storia, una cultura e un destino che riguardano tutti senza che naturalmente ciò cancelli le tante e necessarie diversità; la consapevolezza che siamo solidalmente legati da bisogni e interessi generali; e che tutto ciò si accompagna sì a molti diritti ma anche ad altrettanti doveri. Ci servono nuove culture politiche, nuovi partiti, capaci innanzi tutto di muoversi in una simile direzione. La democrazia italiana ha bisogno di un forte richiamo a un impegno nazionale comune perché è stata proprio la latitanza di esso che nell’ultimo cinquantennio ha prodotto, dopo i primi anni del dopoguerra in cui era ancora operante l’eredità del secolo precedente, lo sgretolamento di quei tre pilastri — una classe dirigente, un sistema d’istruzione, una cultura dello Stato e dell’Amministrazione — necessari a impedire che alla fine, com’è invece avvenuto, prendesse il sopravvento su tutto la più misera e vuota politica di partito . La quale, unica attrice sulla scena, è stata così destinata fatalmente a ritrovarsi alla mercé del dilettantismo dei parvenus e dell’arroganza delle oligarchie. Con il risultato dell’Italia di oggi: un Paese che sembra non sapere più che cosa è né cosa vuole essere; senza idee, senza strategie, senz’anima, sempre più terra di diseguaglianze e di povertà. Un Paese senza Stato, perlopiù sporco e malandato, spesso invivibile, incustodito e inerme di fronte a chiunque voglia prenderselo. E perciò tentato per disperazione dalle sirene di ogni avventurismo politico. È giunta l’ora di pensare in modo netto e forte. Di cominciare a pensare in termini di vera e propria salvezza della Repubblica, come fu altre volte nella nostra storia allorché si trattò di salvezza nazionale. Stiamo attenti: il punto di non ritorno potrebbe essere più vicino di quanto crediamo.

(dal Corriere della Sera - 17 maggio 2018)

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