logo Fucinaidee

Chi vuole ancora le riforme?

di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Realizzare le promesse elettorali vorrebbe dire far crescere il deficit dei conti pubblici dal 2 per cento del Pil quest’anno verso il 4-5 per cento

Passate le elezioni, spesso chi le ha vinte si rende conto che la maggior parte delle promesse fatte sono irrealizzabili. Accade in quasi tutte le democrazie moderne, non solo in Italia. Diciassette anni fa Silvio Berlusconi, nel «Contratto con gli italiani» che firmò prima delle elezioni del 2001 (poi stravinte), promise che avrebbe abbassato, e di molto, la pressione fiscale applicando due sole aliquote: 23 e 33 per cento. Sarebbe stato necessario ridurre le spese, ma ciò non accadde, anzi lievitarono, in quegli anni, di due punti di Pil, nonostante l’economia crescesse.

Immaginiamo oggi un governo composto da Movimento Cinque Stelle e centrodestra. Questi partiti hanno promesso e continuato a ribadire come Luigi Di Maio in questi giorni, di voler cancellare la legge Fornero, un’abolizione che costerebbe cara ai contribuenti che lavorano e sbilancerebbe ancor più il nostro sistema di previdenza a favore degli anziani e contro i giovani; una flat tax oscillante tra il 15 e il 23 per cento, che ridurrebbe il gettito fiscale nel breve-medio periodo; un reddito di cittadinanza molto generoso (il disegno di legge presentato in Senato dal Movimento Cinque Stelle, come conteggiato da Baldin e Daveri su lavoce.info, costa circa 29 miliardi l’anno); infine le immancabili infrastrutture pubbliche: 10 miliardi l’anno per cinque anni nel programma del Movimento Cinque Stelle.

Realizzare queste promesse vorrebbe dire far crescere il deficit dei conti pubblici dal 2 per cento del PIL quest’anno verso il 4-5 per cento. Il debito, che nel piano Gentiloni approvato dal Parlamento lo scorso dicembre scenderebbe nei prossimi tre anni dal 132 al 125 per cento del PIL, ricomincerebbe a crescere. Un risultato che smentirebbe gli impegni che abbiamo preso con l’Europa: ridurre il debito e raggiungere nei prossimi tre anni il pareggio di bilancio.

È assai improbabile che la Commissione europea (il cui parere dovrà essere allegato alla legge di bilancio che il governo in ottobre invierà al Parlamento) approvi una simile legge di Stabilità. Il nuovo governo si vedrebbe quindi costretto ad inviare al Parlamento una proposta di bilancio accompagnata da un parere negativo dell’Europa: finora non è mai accaduto. È facile prevedere che a quel punto gli investitori esteri, i quali detengono il 40% circa dei nostri titoli di Stato, non si fiderebbero più e li venderebbero.

I tassi di interesse sul debito salirebbero, creando un circolo vizioso: maggior costo del debito, più deficit, più tasse per pagare gli interessi. È già successo nel 2011 e l’economia piombò in una recessione profonda. È vero che per ora i mercati sono tranquilli. Gli investitori sanno che il momento della verità non è oggi ma in ottobre. Da qui all’autunno possono continuare ad incassare la differenza fra il rendimento dei nostri BTP e quello dei Bund tedeschi. Ma sui mercati c’è già chi ha cominciato a vendere a termine titoli italiani a quella scadenza.

Arrivati all’autunno, un governo con una maggioranza che va dal M5S al centrodestra che mantenesse le promesse fatte si troverebbe di fronte a quattro possibilità: rinunciare alle promesse fatte, uscire dall’euro, cedere le redini dell’economia alla Troika, aumentare le entrate con un’imposta patrimoniale.

Le attività reali (immobili, aziende, oggetti di valore) rappresentano l’87 per cento del patrimonio lordo delle famiglie italiane (Banca d’Italia, Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, marzo 2018). Solo per il 5 per cento più ricco le attività finanziarie raggiungono il 20 per cento del patrimonio. Un’imposta sulla ricchezza creerebbe problemi di liquidità per la gran parte delle famiglie che potrebbero dover vendere la casa o cedere la propria impresa per pagarla. Inoltre — al di là di ammazzare quel poco di crescita che si sta manifestando — un’imposta patrimoniale colpirebbe più il Nord che il Sud, perche’ il Nord è piu ricco e l’evasione fiscale è piu alta al Sud anche perché nel Mezzogiorno una quota significativa di abitazioni non è iscritta nei catasti (si vedano Lorenzo Casaburi ed Ugo Troiano «Ghost-House Busters: The Electoral Response to a Large Anti ¬Tax Evasion Program»).

Un accordo tra M5S e centrodestra su una patrimoniale già difficile in partenza sarebbe impossibile. Ma se non si vogliono rinnegare le promesse, né si vuol cedere la guida dell’economia alla Troika, e una patrimoniale pesante è impossibile, resta una sola soluzione: uscire dall’euro, se non addirittura dall’Unione Europea. Forse per la Lega questo potrebbe non essere un problema. Le continue frasi bellicose di Salvini contro Bruxelles e la Bundesbank sono un segnale chiaro. Ma chi pensasse che un’uscita unilaterale dall’euro — accompagnata da un’impennata dei tassi di interesse e dall’insoddisfazione dei sindacati quando il potere d’acquisto dei salari sarà ridotto dall’inflazione e dalla svalutazione della nuova lira — possa aiutare economia e imprese, si sbaglia di grosso.

Sull’Europa i toni del M5S si sono attenuati. Ma restano le promesse. Il movimento di Di Maio dovrebbe accettare che il reddito di cittadinanza in Italia già esiste: è il reddito di inclusione varato dal governo Gentiloni, che però costa 2 miliardi, non 29. Si può rafforzare, ma solo marginalmente. Dovrebbe rendersi conto che per aiutare i giovani, che in tanti lo hanno votato, la legge Fornero va rafforzata, non cancellata. Che rinnovare la classe politica e la burocrazia è un ottimo proposito, ma esse vanno sostituite con persone adeguate, non con urlatori da barricata con poca competenza. E che chiedere più risorse per la sanità, la scuola, le infrastrutture (ma solo quelle davvero necessarie) è sacrosanto, ma i soldi vanno trovati tagliando altri capitoli di spesa. E prima, però, di cominciare a spendere, non dopo. Ma questo significherebbe orientarsi a essere una forza davvero riformista che vuole cambiare il Paese e non solo promettere di farlo.

(dal Corriere della Sera - 11 aprile 2018)

Link per approfondire

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina