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Commento introduttivo

Da tempo, nei miei articoli, ho espresso la mia opinione circa l'ormai inattualità delle vecchie categorie politiche. Ciò in ragione dei profondi mutamenti intercorsi negli assetti politico-culturali degli ultimi decenni, non solo in Italia, che hanno posto su altri crinali il principale discrimine fra le posizioni in campo.
Mutamenti che pongono ormai all'ordine del giorno dell'agenda del dibattito e della prassi politica altre categorie, fra cui mi pare primeggi la distinzione fra coloro che vedono nel ritorno ad assetti passati la via di uscita dalla crisi del presente, e coloro, invece, che vedono nel consolidamento di forme di integrazione fra Paesi, la strada maestra per approntare risposte alle attuali difficoltà.
Insomma, mi pare che la partita più significativa si giochi fra "sovranisti" ed "europeisti", che non significa certo la sottovalutazione di differenze pur presenti all'interno di ciascuna categoria, ma è questo parametro che prioritariamente le connota.

Prima delle elezioni del 4 marzo, che anche in Italia hanno visto il crollo dei partiti tradizionali, ebbi a scrivere che occorreva ridefinire il "paradigma valoriale della politica"; invito che, dopo l'esito del voto, risulta di assoluta attualità.
In accordo con quanto scrive Angelo Panebianco nell'articolo che propongo ai lettori di Fucinaidee, penso che dalle urne (né dalla vicenda dell'elezione dei Presidenti delle Camere) non sia uscito un nuovo bipolarismo, capace di stabilizzare l'assetto politico-democratico del Paese.
Un bipolarismo forte presuppone un centro forte, che potrà essere ricostituito solo tramite la scomposizione e riaggregazione delle attuali forze, attorno ad una nuova e chiara piattaforma politico-programmatica. Operazione complessa, ma che si propone come unica opzione credibile per rimettere il sistema Italia nella giusta carreggiata.
Un'operazione sulla scorta di quella messa in campo da Macron in Francia, anche se qui tutto appare molto più complicato, sia per le differenze di architettura istituzionale, sia di retroterra politico-culturale.

Ma questa operazione di scomposizione e riaggregazione appare l'unica possibilità concreta per fronteggiare l'avanzamento degli estremismi, magari anche giustificato dall'incapacità dei partiti tradizionali di dare risposte vere ai grandi temi che interessano la gente, ma non certo idonei a dare risposte vere, non illusorie, di medio-lungo orizzonte.
Citando Nicola Matteucci, i populismi illudono la gente con "idee semplici e passioni elementari", che possono sì far vincere qualche tornata elettorale, ma non potranno risolvere i nodi di una stagione di particolare complessità qual è il tempo che viviamo.

Naturalmente nessuno è oggi in grado di sapere se ci sarà sufficiente coraggio e forza per dar vita ad un'operazione politica capace di riaggregare - attorno ad una chiara piattaforma politico-programmatica - ciò che oggi è completamente sfilacciato.
Ciò presuppone, intanto, che non ci si lasci imbambolare dalla solita voglia italiana di andare in soccorso al vincitore: le immediate strizzatine d'occhio offerte ai grillini da molti intellettuali di sinistra sono state uno spettacolo indecente.
La strada è tutt'altro che piana. Pur con questa consapevolezza, penso che la costruzione di un centro forte e credibile, articolato nel modo che meglio si adatterà all'evoluzione del contesto, risulti al momento l'unica direzione di marcia per cui valga la pena impegnarsi. Per quanto possibile, naturalmente al di fuori di ogni velleitarismo, noi cercheremo di esserci.

Paolo Razzuoli

Il declino del centro (per ora)

di Angelo Panebianco

il futuro dopo il voto
La ricostituzione del centro richiederà la scomposizione delle forze oggi esistenti

I rapporti di forza così come sono stati fissati dai risultati elettorali e come si sono subito manifestati nella elezione dei presidenti di Camera e Senato hanno fatto pensare che un nuovo bipolarismo, un bipolarismo 5 Stelle/Lega, stia per consolidarsi; come dimostrerebbero le scintille di ieri tra Salvini e Di Maio. Non ci credo affatto. Un simile bipolarismo non potrebbe mai stabilizzarsi né stabilizzare la democrazia italiana. L’esperienza storica, la storia delle democrazie, ci dice che nessun bipolarismo può diventare durevole se la sua affermazione si accompagna allo «squagliamento» del centro. Il declino del centro è l’evento più significativo delle elezioni del 4 marzo. Ed è anche la condizione che rende improbabile la stabilizzazione del nuovo quadro politico e dei connessi rapporti di forza. Qui giova la lezione di Giovanni Sartori. La forza del centro, per Sartori, può manifestarsi in due modi. O c’è un bipartitismo i cui poli tendono a convergere al centro, a competere fra loro per conquistare l’elettorato più centrista (e per questa ragione adottano programmi e promettono politiche «centriste») oppure il centro dello schieramento è occupato in permanenza da un partito o da una coalizione di partiti e le forze estreme sono relegate all’opposizione. La prima è stata, nelle fasi più felici della sua storia, l’esperienza della Gran Bretagna. La seconda è stata l’esperienza italiana ai tempi della Guerra fredda. Ciò che in nessun caso può stabilizzare una democrazia è un bipolarismo i cui poli siano occupati dalle estreme (un bipolarismo che Sartori avrebbe definito «centrifugo», in fuga dal centro).

A ben guardare, nonostante le urla dei tanti e la caciara che per lo più accompagnano la lotta politica nei Paesi latini, la nostra breve esperienza di democrazia maggioritaria, ai tempi della contrapposizione fra Prodi e Berlusconi, aveva dato vita a un bipolarismo i cui poli non fuggivano verso le estreme ma convergevano al centro (gli estremisti presenti nei due schieramenti erano tenuti a bada da forze centriste). Il senso di questo discorso è che le elezioni del 4 marzo, lungi dall’innescare un processo che potrebbe stabilizzare la democrazia italiana, hanno aperto un vuoto politico, anzi una voragine, nel centro dello schieramento (sono venuti meno, come osservava Francesco Verderami sul Corriere del 26 marzo, i punti di riferimento politico dei «moderati», ossia, precisamente, degli elettori centristi). L’eventuale futura stabilizzazione della democrazia italiana richiede che quel vuoto venga riempito. Che ciò si verifichi o no, nessuno può al momento saperlo.

La ricostituzione del centro, se mai avverrà, richiederà la scomposizione di forze oggi esistenti: dovrà aggregare sia parti del Pd indisponibili a una alleanza con i 5 Stelle sia la parte di Forza Italia contraria a farsi assorbire dalla Lega. Un simile processo, per riuscire, avrà bisogno di tre ingredienti.
Il primo è il tempo. Non è una operazione possibile nel giro di poche settimane o pochi mesi.
Il secondo ingrediente è la leadership. Le situazioni di emergenza favoriscono a volte l’avvento di leader energici. La ricostituzione del centro non sarà possibile senza l’affermazione di una nuova leadership — in stile Macron per intenderci.
Il terzo ingrediente ha a che fare con la proposta politica. Insieme alla leadership essa può contribuire a forgiare nuove identità. La ricostituzione del centro passa per l’articolazione di una proposta da presentare al Paese e che sia alternativa a quelle delle estreme.

Sul piano economico, tale proposta dovrà essere alternativa — e quindi chiara, non equivoca — alle ricette «venezuelane» che i vincitori proporranno (flirtando con Di Maio, Matteo Salvini ha scoperto che il reddito di cittadinanza potrebbe creare lavoro: niente di meno). Ma il lavoro si crea se si sa come attirare investimenti, se si riduce il debito rendendo contestualmente possibile la riduzione delle tasse, se si allentano i vincoli burocratici.
Né il Partito democratico né Forza Italia in questa campagna elettorale avevano, al riguardo, proposte chiare. Si sono visti i risultati.

Altrettanto incisiva dovrà essere la proposta politica di un ricostituendo centro per tutto ciò che riguarda il rapporto fra l’Italia e il mondo. Occorre spiegare agli italiani che gli interessi del Paese vanno tutelati dentro l’Europa e non contro di essa, ossia svolgendo un ruolo attivo nel processo di integrazione: il contrario di quanto auspicano o perseguono i cosiddetti «sovranisti». Occorre spiegare, inoltre, che i Trump passano ma la Nato resta, ossia che l’alleanza, anche militare, fra le due sponde dell’Atlantico è, e sarà anche in futuro, la più importante condizione di mantenimento di ordine (quel tanto di ordine che è possibile) e di pace (quel tanto di pace che è possibile) nel mondo. E occorre spiegare — almeno fin quando sarà ancora possibile farlo senza diventare successivamente vittime di misteriosi incidenti — che collaborare con la Russia è necessario ma è anche indispensabile farlo tenendo sempre un nodoso randello in mano. Senza compromettere il legame con gli alleati occidentali e senza mai dimenticare quanto possano essere pericolosi i rapporti con una grande potenza retta in modo autoritario e abituata da secoli a usare forza e brutalità per affermare se stessa nel mondo. In un assetto maggioritario di tipo francese una leadership neo-centrista potrebbe in poco tempo sbaragliare le estreme e conquistare da sola il governo. In un assetto proporzionale quale è il nostro, l’eventuale successo di un’operazione neo-centrista, probabilmente, favorirebbe una dislocazione delle forze non troppo dissimile da quelle che l’Italia ha già sperimentato in epoche passate.

(dal Corriere della Sera - 27 marzo 2018)

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