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Embraco e le altre: la difficile gestione delle crisi aziendali

di Fabiano Schivardi

Non si può pensare di avere un mondo senza chiusure aziendali. Ed è inevitabile che nei paesi meno sviluppati cresca la produzione di beni a basso valore aggiunto. Va ammodernato il nostro sistema produttivo, facendo leva su ammortizzatori adeguati.

Costo del lavoro e sviluppo

La Embraco, multinazionale brasiliana che produce compressori per frigoriferi, ha annunciato la chiusura del suo stabilimento a Riva, presso Chieri, e il licenziamento di circa 500 lavoratori. L’annuncio è drammatico. Ma più che nella sua specificità, molti commentatori lo hanno interpretato come un segnale di un processo di desertificazione del panorama industriale italiano. I numeri, tuttavia, non confermano le analisi catastrofiste. La produzione industriale cresce (a dicembre 4,9 rispetto a 12 mesi prima e in accelerazione a inizio 2018), il Pil anche, i fallimenti sono tornati ai livelli pre-crisi. Non c’è neanche evidenza di una fuga di capitali esteri, anzi: il 2016 è stato un anno record per gli investimenti diretti esteri (25 miliardi rispetto a meno di 15 negli anni precedenti). Certo, la ripresa è tutt’altro che travolgente ed è probabile che torneremo a quella crescita asfittica pre-crisi. Ma da qui a dire che c’è un’emergenza-desertificazione industriale ce ne corre.
Annunci come quello di Embraco sono devastanti per la vita di centinaia di famiglie. Tuttavia, le crisi aziendali ci sono sempre state e sempre ci saranno. La riallocazione dei fattori produttivi (leggi distruzione di posti di lavoro e, si spera, creazione di altri) è un elemento fondante delle economie di mercato e un motore importante di crescita della produttività. È illusorio pensare che si possa vivere in un mondo senza chiusure aziendali. Nel caso specifico dell’Embraco, ha fatto però scalpore che la produzione italiana venga delocalizzata in Slovacchia. Il ministro Carlo Calenda ha preso una posizione molto dura nei confronti della multinazionale e ha portato il caso a Bruxelles.

Ci sono due aspetti dietro il rischio-delocalizzazione, che è utile tenere distinti.
In primo luogo, ci sono casi in cui le multinazionali sono attratte da regimi fiscali di favore. Non c’è dubbio che il dumping fiscale sia una pratica assolutamente negativa, tanto più all’interno di una comunità come dovrebbe essere l’Unione europea. La battaglia per l’armonizzazione dei regimi fiscali e contro l’uso di incentivi per attirare produzioni da altri paesi è giustissima. Altrettanto giusto sarebbe promuovere sempre di più una tutela comune dei lavoratori, inclusa un’assicurazione contro la disoccupazione europea.
Meno giusto è dire che un paese con costo del lavoro più basso fa di per sé stesso competizione scorretta. Generalmente, il costo del lavoro è più basso perché il paese è più povero. Una nazione più povera sfrutta il proprio vantaggio comparato: una forza lavoro poco costosa. È il modello tipico di sviluppo dei paesi poveri. È stato il meccanismo alla base del miracolo economico italiano, che ci ha permesso di fare un salto enorme in termini economici e sociali in meno di due decenni. E anche l’industrializzazione del tessile di Prato, dei distretti meccanici veneti o calzaturieri marchigiani è avvenuta a spese di lavoratori addetti in produzioni simili nei paesi allora più avanzati dell’Italia.

C’è anche un altro punto collegato. Il tema principale del dibattito pubblico italiano è l’immigrazione. Una ricetta che va per la maggiore è “aiutiamoli a casa loro”. L’idea è che lo sviluppo “a casa loro” riduca le pressioni migratorie. Ma per svilupparsi, i paesi più poveri non hanno alternativa a che produrre beni a basso valore aggiunto, principalmente per l’export verso i paesi ricchi. Quindi, o si accettano i flussi migratori o si accetta il fatto che i paesi di origine si sviluppino. In alternativa c’è solo l’autarchia: muri e barriere al commercio.
È inevitabile che nei paesi meno sviluppati la produzione di beni a basso valore aggiunto crescerà. Adoperarsi per mantenere indefinitamente queste produzioni in Italia è come tentare di tappare falle che si aprono in continuazione in uno scafo ormai vecchio. È necessario rifare lo scafo.
L’Italia deve aggiornare il suo modello di sviluppo e spostarsi progressivamente su produzioni a più alto valore aggiunto e con maggiore contenuto di capitale umano. La competizione diretta con i paesi a basso costo del lavoro è una partita persa in partenza, a meno di non ridiventare anche noi un paese a basso costo, cioè povero.

Il ruolo degli ammortizzatori sociali

Qual è il ruolo degli ammortizzatori sociali? Il processo di riforma del mercato del lavoro negli anni recenti si è basato sull’idea (giusta) di passare dalla protezione del lavoro a quella del lavoratore. La cassa integrazione protegge il posto di lavoro, ma spesso finisce per mantenere (temporaneamente) in vita posti di lavoro-zombie. Sostegni al reddito (politiche passive), formazione e reinserimento (politiche attive) sono, invece, strumenti che non si oppongono, ma accompagnano e facilitano l’inevitabile processo di riallocazione a cui tutte le economie sono soggette. Ciò vale tanto più per l’Italia, che deve affrontare un processo lungo e difficile di ammodernamento del proprio sistema produttivo.
Di fronte al dramma di tanti lavoratori a rischio, è naturale provare a risolvere una crisi aziendale tentando di mantenere una forma di status quo. Da qui le centinaia di tavoli di crisi aperti presso il ministero per lo Sviluppo economico. Ma da un punto di vista sistemico, bisogna chiedersi se sia un approccio sostenibile sempre: quante fabbriche può riqualificare Invitalia (il braccio finanziario del Mise)?

da www.lavoce.info)

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