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Quelle regole sbagliate sui migranti nel nostro Paese

di Ernesto Galli della Loggia

La solitudine politica locale produce un senso di abbandono dagli esiti imprevedibili. Gli aspetti negativi legati all’immigrazione vanno assolutamente contrastati

Sarebbe interessante sapere chi, quale Paese, si riprenderà mai i seicentomila immigrati che Berlusconi ha promesso, se vince le elezioni, di cacciare via dall’Italia. Nessuno lo sa, e naturalmente non ne ha una minima idea neppure Berlusconi stesso. Basterebbe questo a indicare l’incosciente superficialità con cui la classe politica italiana è abituata a trattare il tema dell’immigrazione. È la stessa superficialità,del resto, che l’ha portata a lasciare in vigore a tutt’oggi la legge Bossi-Fini.

In base alla quale, è bene ricordarlo, l’unico modo legale per immigrare per ragioni economiche in Italia consiste nell’ipotesi che un imprenditore italiano, bisognoso di assumere un lavoratore, e sapendo che c’è un cittadino, mettiamo senegalese, desideroso di venire a lavorare nella Penisola, gli faccia pervenire la richiesta di assumerlo con regolare contratto di lavoro. Un’ipotesi assolutamente realistica, nessuno vorrà negarlo: più o meno come lo sbarco di un’astronave domattina su Marte.

Se tanto mi dà tanto non stupisce che in queste ore la reazione della nostra classe politica ai fatti di Macerata non sappia andare oltre lo sdegno virtuoso dei buoni sentimenti da un lato, e il losco calcolo politico dall’altro. Sempre accompagnati però da nessun’idea, da nessuna proposta, da nessuna capacità di trarre qualche lezione non retorica da quanto è successo. Che invece di lezioni e indicazioni importanti ne contiene parecchie.
Ne accennerò qualcuna in ordine sparso, non necessariamente secondo l’ordine della loro importanza.

1) Chi ha ascoltato ieri mattina su Radio 24 i balbettii del sindaco di Macerata Carancini (centrosinistra), indeciso tra il dire e il non dire, tra la denuncia del degrado e la volontà di spalmare vaselina, incapace di dare un quadro vero e preciso della situazione, ha potuto, diciamo così, toccare con mano un dato preoccupante dell’Italia di oggi, che spiega molte cose. Il fatto cioè che grazie alle nefande leggi elettorali succedutisi negli ultimi vent’anni le città e i territori della Penisola sono ormai privi di un’autentica rappresentanza politica e quindi privi di voce presso il potere centrale.

Oggi come oggi, se vuole illustrare il disagio e i bisogni della sua città (per esempio riguardo la sicurezza), il sindaco di Macerata può al massimo (spero non balbettando come ha fatto alla radio) rivolgersi al prefetto. Un tempo, invece, il deputato e il senatore eletti localmente fungevano da naturali raccordi e collettori dei problemi locali verso il governo nazionale. Essi informavano, chiedevano, insistevano: non da ultimo perché ne andava della loro rielezione: che oggi invece dipende solo da una segreteria di partito a Roma o a Milano. L’attuale solitudine politica di città e territori produce una disarticolazione complessiva del Paese e nelle collettività un sentimento di abbandono e di frustrazione dagli esiti imprevedibili; oltre naturalmente a far dipendere il governo solo dal canale informativo rappresentato dalle prefetture. Un canale inevitabilmente portato più a una valutazione dei problemi di tipo burocratico-amministrativo e di tono rassicurante piuttosto che, quando è necessario, drammaticamente politico.

2. Come mostrano le evidenze statistiche, che non sono né di destra né di sinistra, certi reati sono commessi dagli immigrati in una percentuale enormemente superiore agli italiani (si arriva al 60 per cento). Si tratta specialmente dei reati connessi alla prostituzione, allo spaccio e di quelli contro il patrimonio (furti in appartamento, borseggio, ecc.): reati suscettibili in tutti e tre i casi di diffondere degrado nelle zone più povere dei centri urbani e allarme, spesso anche un senso di rivolta, negli strati più deboli della popolazione. Mi chiedo: è possibile che non ci sia nulla da fare per arginare simili fenomeni? Perché non pensare ad esempio, data l’alta incidenza di recidività che esiste in questo tipo di reati, a cancellare ogni tipo di attenuante, di arresti domiciliari, di patteggiamento, di libertà vigilata et similia, che insieme a percorsi giudiziari accelerati sia in grado di dar luogo a un’alta probabilità di sicura e immediata detenzione carceraria per i colpevoli? Conosco l’obiezione: la capienza delle carceri italiane è al limite. Bene: ma è proprio impossibile, pagando profumatamente (come del resto già facciamo per cercare di tamponare l’afflusso di nuovi venuti), stipulare degli accordi con almeno alcuni dei Paesi di provenienza degli immigrati affinché le pene inflitte ai loro cittadini dai nostri tribunali vengano scontate nelle loro rispettive patrie? Almeno ci si provi, il ministro Minniti ci provi. Il fatto assolutamente devastante che la classe politica sembra non capire è che oggi come oggi nessun italiano è in grado di ricordare neppure un solo provvedimento, adottato diciamo negli ultimi dieci anni, volto a contrastare all’interno del territorio nazionale uno dei mille aspetti negativi legati al fenomeno immigratorio. Neppure uno solo. Ci si rende conto che razza di delegittimazione ciò significa?

3. E infine l’integrazione. Anche qui un mare di chiacchiere da parte dei pubblici poteri e di tutti i partiti ma pochissimi fatti. Il primo e più ovvio percorso d’integrazione per gli immigrati dovrebbe consistere ovviamente in un lavoro. Ma non in un lavoro purchessia: in un inquadramento lavorativo legale.

Qui comincia però la demenza burocratico-amministrativa italiana: essendo clandestini gli immigrati, infatti, non possono essere assunti legalmente se non dopo procedure assai complesse. Dunque anche il loro lavoro resta in un gran numero di casi un lavoro «clandestino», in nero e sottopagato. In verità clandestino spesso per modo di dire: tanto è vero che da anni, ad esempio, le campagne dell’Italia meridionale rigurgitano di decine di migliaia e migliaia di giovani, in stragrande maggioranza africani, dediti ai lavori agricoli, sottoposti a uno sfruttamento infame e in condizioni di vita ancora più infami. Il tutto a vantaggio dei proprietari e delle organizzazioni malavitose di «caporalato», mentre il ministro del lavoro, il placido Giuliano Poletti, con i suoi ispettori sta placidamente a guardare. E con le conseguenze nell’animo di quei miserabili che è facile immaginare: odio, disprezzo, e un sentimento di rivalsa aggressiva verso il Paese in cui si trovano: un Paese che parla in continuazione di accoglienza per poi trattarli in quel modo.

(dal Corriere della Sera - 6 febbraio 2018)

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