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La visione che manca alle nostre élite

di Carlo Carboni

Dal ’68, giunto al cinquantenario, l’immaginazione non ha mai sfiorato né ispirato le classi dirigenti che si sono avvicendate nei Paesi occidentali. Anzi, le élite hanno via via perso cultura e scopo politico. Gradualmente hanno smarrito il senso del passato e del futuro. Abitano un presente senza profondità. Basta guardare alla Ue, priva di slancio, impantanata in nazionalismi di ritorno e in piccole patrie inattuali. La crisi della politica e delle classi dirigenti si è diffusa un po’ ovunque nel mondo occidentale. Ha assunto forme grottesche, fino a proporre leader a scala globale che soffrono di evidenti disordini mentali da personalità iper-narcisistica, esattamente come accadde circa un secolo fa, con l’ascesa dei nazionalismi e del cosmopolitismo degli interessi economici. Il mondo di oggi è pieno di leader, di tutte le taglie, che vedono l’interesse collettivo solo in funzione del loro ego.

In Italia, la crisi delle élite politiche è apparsa esplosiva fin dagli anni 90, quando si creò un vuoto tra governanti e governati. La crisi economica ha ampliato il risentimento sociale a gran parte dei ceti medi, frustrati dal blocco degli ascensori sociali. Tra false promesse persuasive e incapacità di trasformare la scomparsa delle ideologie in piani di profonda riforma del Paese, si è consumato un indebolimento delle culture politiche, fino a rendere le élite sempre più vuote d’intenti per il bene del Paese e sempre più risucchiate da interessi autoreferenziali.

Per la politica, in apparenza, è cambiato tutto in mezzo secolo. Si è finanziarizzata, personalizzata, mediatizzata e i partiti di massa non esistono più: ma tutto è cambiato per non cambiare niente. Tutto è rimasto uguale nello stagno della politica italiana. Nel ’68 si andò, in maggio, a elezioni politiche che non risolsero alcunché dei problemi che ribollivano nel Paese. Anzi, segnalarono una crisi prematura della cultura della programmazione del centro-sinistra, già allora litigioso e diviso. Allo stesso modo, nel 2018 assisteremo a elezioni che, al meglio, potranno garantire la solita risicata stabilità, inadeguata a risolvere i ritardi del Paese. I leader istrioni - che “vanno” direttamente al popolo - sono serviti a ben poco, se non a nascondere un’implosione di élite politiche da essi stessi cooptate.

L’unico cambiamento di sostanza è l’estesa disaffezione dei cittadini nei confronti dei politici. Nel ’68 “extra-parlamentare” votò paradossalmente circa il 95% degli aventi diritto. Nel 2018, si teme un astensionismo di più del 30% di una società etichettabile come“a-parlamentare”.
Molti italiani (e molti occidentali) hanno voltato le spalle alla politica. Si arriva alla guida del Paese per default e chi timona teme di sbagliare rotta perché non ci sono culture egemoniche in grado di mobilitare le élite su fini e progetti all’altezza dei problemi del Paese.

Non si può fare di ogni erba un fascio, ovviamente. Industria 4.0 ha segnato il ritorno della politica economico-industriale alla ricerca di un sentiero innovativo di crescita e sviluppo e buone cose sono state fatte pur nelle ristrettezze della finanza pubblica. Ciampi in passato e Draghi oggi dimostrano che ci sono uomini che “vanno” dritto ai contenuti e si cimentano da classi dirigenti. Che dire però delle grandi questioni del Paese che rischiano di diventare punti ciechi, come il debito pubblico, il ritardo e il declino di mezza Italia o il divario generazionale che costringe i giovani a impersonare l’Italietta dei camerieri e dei migranti alla ricerca di fortuna all’estero? Dubito che se ne parlerà seriamente in campagna elettorale: le élite politiche italiane agiscono come se non ci fossero più scopi né grandi progetti comuni per cui impegnarsi. Hanno il solo fine di sopravvivere. Tutto appare frammentato, spezzettato: ognuno tira l’acqua al proprio mulino, zavorrando oltremodo l’Italia che funziona. La stessa società, ha piegato verso la privatizzazione delle vite nella domus elettronica, nell’individualismo disincantato fino al cinismo, nella defezione astensionista.

Viviamo un’era di discontinuità, indecifrabile. Tanti dati, tante informazioni, ma senza cornici interpretative in grado di suggerire soluzioni di medio raggio per questo secolo. La stessa (neo)modernità si complica e si differenzia, ibridandosi con culture molto diverse da quelle occidentali. Tecnologia e finanza sono divenute le nuove monete del potere economico cosmopolita e multietnico, che ha spiazzato i vecchi assetti e reso sempre più periferici i poteri statali nazionali. Tanti cambiamenti, tante incertezze: non è facile generare e selezionare una classe dirigente in grado di essere all’altezza delle sfide. Eppure, a cominciare dall’Italia, si fa poco per generare o selezionare per merito classe dirigente. Con queste carenze di guida, non rischiamo di rimanere in sospensione, tra il presentimento della fine di un’epoca e la necessità di un nuovo inizio?

(dal Sole 24 Ore - 26 gennaio 2018)

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